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Mario Baudino per “La Stampa”
Correva il ’94, anno decisivo nella nostra storia politica, e al Lingotto Indro Montanelli, appena divenuto a furor di popolo il nuovo padre nobile di una sinistra a venire, incoronò Massimo Cacciari come possibile, necessario leader della riscossa. «Siete così tanti che potremmo fare un partito», disse all’inizio del suo discorso, battezzando il primo Salone al calor bianco. Le cose non andarono poi come previsto, ma da allora e per tutto un ventennio la politica è sempre entrata attraverso la porta principale, una politica dai toni forti e spesso sovracuti, appassionata e rissosa.
Erano gli anni dell’antiberlusconismo militante, dei Flores d’Arcais, dei Freccero, dei Travaglio a infiammare le folle, degli anatemi e delle analisi, delle opposte tifoserie e dei confronti serrati. I lettori, che sono pur sempre una élite del Paese, si appassionavano, all’occorrenza si sbracciavano. In qualche modo, il Salone offriva il polso dell’annata, almeno per quanto riguarda i sentimenti di un determinato ceto sociale, quello che il mai dimenticato Edmondo Berselli aveva identificato nella metafora delle «professoresse democratiche», quello che si appassionava ai talk-show e che aveva voglia di combattere, anche se poi, nelle urne, si ritrovava sempre e cocciutamente minoranza.
I media di centrodestra sparavano a palle incatenate contro il «Salone della sinistra», gli organizzatori (nel ’94 Beniamino Placido, di lì a poco Ernesto Ferrero) non si stancavano di precisare che ogni contributo era graditissimo, purché qualcuno lo proponesse; i politici locali, in Piemonte, si dividevano fieramente in base alle aree di appartenenza.
CHIAMPARINO AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO
Al Lingotto si consumavano le ardenti speranze pre-elettorali e i severi lutti per le elezioni perdute, Cesare Garboli si arrabbiava pubblicamente con il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, che si chiedeva se non fosse il caso di mettere tra parentesi la parola comunismo; Vincenzo Cerami spiegava a una platea immelanconita dai risultati del 2001 che «in fondo solo tre persone su dieci hanno votato Berlusconi» e dunque si poteva pure «metabolizzare la sconfitta». Era simpatico persino Massimo D’Alema, prendeva applausi.
GODOY E FASSINO AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO
Passato il ventennio, qualcosa è cominciato a cambiare. Già negli ultimi anni le minacciate (e sempre rinviate) incursioni di Grillo non sono sembrate tali da alzare la temperatura del Lingotto, e anche se l’attivismo dei tribuni non è mai venuto meno, la cornice non è più la stessa.
BRAY CON SGARBI AL SALONE DEL LIBRO
Si potrebbe persino arrischiarsi a indicare un punto di svolta: forse il 2013, quando Matteo Renzi, ancora sindaco di Firenze, venne a presentare il suo libro Oltre la rottamazione (Mondadori) e la sua leadership fu pubblicamente benedetta, fra gli altri, da Walter Veltroni. Il senso di quel che allora si mise in movimento nella società italiana può essere rintracciato facilmente nel Salone di quest’anno, specchio fedele: la politica in sé non ha mutato di segno, ma non riempie più le sale, tanto che un incontro con il governatore del Piemonte Sergio Chiamparino come ospite è addirittura andato deserto.
Non mancano i tribuni, però gli scontri tra le opposte tifoserie, la polemica strettamente ideologica sembrano davvero fantasmi di un passato quasi remoto.
È finito il talk-show (dunque, non solo in televisione) col suo corredo di urla e indignazioni, sarcasmi e veleni, solipsismi e retorica; per ora la «professoressa democratica» (intesa come categoria dello spirito) sta un po’ alla finestra, anche se riesce a intimorire il ministro Giannini, che cancella la sua partecipazione dato il clima che circonda la riforma della scuola.
In generale, però, preferisce ascoltare, imparare se possibile; e in qualche modo delega. Secondo Ernesto Ferrero, per tanti anni tessitore del palinsesto, questo Salone ha dimostrato ancora una volta che indubbiamente, con la fine del berlusconismo e dell’antiberlusconismo, è caduta «questa contrapposizione un po’ efferata», ma non la passione civile «che al momento non sa bene come e dove incanalare la propria energia».
Anche lui confessa di aver accarezzato per qualche tempo, in passato, l’idea di un «movimento dei lettori», ma di averla infine lasciata cadere. Negli anni ruggenti la dinamica da talk-show si imponeva da sola come effetto di svariate cause concorrenti. Lui, ricorda, si era assunto il compito di mediare tra le esigenze degli editori (tutte le novità possibili) e quelle del Salone (tutto il catalogo possibile).
E le novità, spesso molto politiche, nell’Italia della grande contrapposizione piacevano eccome. Ricorda fra le tante una domanda di qualche tempo fa, rivolta durante un incontro col pubblico a Eugenio Scalfari: «Ma noi che cosa possiamo fare?». Oggi il punto interrogativo resta, e forse anche la domanda: ma è diventata molto più selettiva. Ed espressa a bassa voce.
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