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Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera"
Soprannominato dai cittadini «little flower» (piccolo fiore) per la sua statura (un metro e 57) oltre che per il suo nome, Fiorello La Guardia, il primo grande sindaco «italiano» di New York non avrebbe potuto essere più diverso, e non solo fisicamente, dal gigante Bill de Blasio (un metro e 96) scelto stanotte dagli elettori della metropoli come successore di Michael Bloomberg.
La Guardia, che aveva passato qualche anno della sua vita in Italia e aveva fatto l'interprete a Ellis Island, il luogo di approdo degli emigranti venuti dall'Europa, fu eletto nel 1933 da una coalizione di repubblicani e indipendenti. Non era il favorito e i pregiudizi contro gli italiani erano fortissimi. Lo aiutò uno scandalo che travolse il sindaco democratico Walker. Regnò per 12 anni, trasformando il volto di New York: conservatore ma pragmatico.
De Blasio non solo non è un repubblicano come La Guardia (e come Rudy Giuliani) ma, da democratico, ha idee e una storia personale molto di sinistra, per gli standard Usa: viaggi in Unione Sovietica negli anni Ottanta, intensa frequentazione giovanile del Nicaragua, impegno a favore dei sandinisti, viaggio di nozze nella Cuba castrista, meta ancora oggi proibita per gli americani.
Al di là delle differenze profonde tra i due personaggi, comunque, sono le circostanze storiche e l'evoluzione sociale a rendere completamente diversa la realtà di New York e della sua comunità italiana all'alba del terzo millennio. Ancora cinquant'anni fa si parlava di New York come della seconda o terza città degli italiani: solo a Roma (e forse a Milano) vivevano più cittadini del nostro Paese.
Comunità ancora piuttosto compatte: quelle della Little Italy di Manhattan, la grande colonia di Brooklyn, quelle della parte nord del Bronx e di Staten Island. Ancora oggi sui 21 milioni di abitanti della grande area urbana di New York (la città vera e propria ha 8,2 milioni di anime), più di tre milioni sono quelli di origine italiana.
Ma i vecchi coaguli urbani non ci sono più. Little Italy è ormai un quartiere cinese. Resiste solo un pugno di trattorie a Mulberry Street. Nel Bronx bisogna andare ad Arthur Avenue per ritrovare un po' di sapore della vecchia Italia. Rimane qualche enclave a Brooklyn, il quartiere di de Blasio. Che rivendica orgogliosamente le sue origini beneventane (Sant'Agata dei Goti) quando parla coi media italiani. Ma poi, nella sua campagna, ha puntato sull'immagine multietnica della sua famiglia (la moglie, Charlene, è nera) e sulla conquista delle minoranze nere, ispaniche ed ebraiche, assai più di quella italiana.
Italoamericani discendenti dell'immigrazione di fine Ottocento ormai integrati, emigrati dell'onda della metà del Ventesimo secolo in via di assimilazione. E gli arrivati degli ultimi anni, i professionisti della moda, della finanza, delle professioni legali e dell'alta cucina che mantengono la loro identità italiana: i vecchi leader - costruttori, importatori, giudici, commercianti - ormai svaniti.
I nomi sulla bocca di tutti sono quelli di designer, signori della moda, artisti, architetti (Renzo Piano su tutti), ristoratori: Mario Batali, Lidia e Joe Bastianich che sono anche star televisive. Con Eataly a fare da catalizzatore dell'«industria del cibo», unico vero, grande aggregatore del made in Italy. Il mosaico sociale è cambiato. E la mafia non spaventa più.
Così de Blasio non ha faticato a raccogliere un voto plebiscitario: chi voleva attaccarlo l'ha fatto agitando falce e martello, non insinuando frequentazioni malavitose. Non era stato così, qualche decennio fa, per Geraldine Ferraro e Mario Cuomo, frenati da campagne calunniose. Oggi il figlio di Mario, il governatore dello Stato, Andrew Cuomo, viene attaccato per il suo stile politico piuttosto rude, non certo per la sua italianità . Per gli italiani d'America l'identità etnica ha ancora una certa importanza, ma non è più il fattore che li definisce.
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