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VIDEO: GIULIANI TRAVESTITO DA DONNA VIENE SEDOTTO DA TRUMP
Maria Giovanna Maglie per Dagospia
Niente armi alla convention di Cleveland nella Quicken Loans Arena dal 18 luglio al 21 luglio, Fbi e servizi segreti hanno detto no, e messo fine alla petizione, già 42mila firme, di repubblicani arrabbiati convinti di rappresentare così i diritti sanciti dal Secondo Emendamento alla Costituzione.
Menomale, perché con l’aria che già tira, e ancora più mefitica tirerà di qui a luglio, si rischiava un bel regolamento di conti nella maniera definitiva. Non succedeva dal 1976, e prima ancora dal 1964, e mai l’ipotesi di convention contested o brokered, che poi vuol dire la stessa cosa, taroccata, è stata circondata da tanta acrimonia, scambio di accuse, da “anythingbutTrump” invece di “anythingbutHillary”.
rudy giuliani drag queen con donald trump
Mentre i candidati si preparano all’appuntamento fondamentale di New York, il 19 aprile, dove Ted Cruz è stato accolto molto male, gli opinionisti repubblicani hanno cominciato a dire la loro senza più remore, e se le danno di santa ragione. Chi mena scandalo per un D’Alema e un Bersani che non baciano la pantofola a PittiBullo, frutto di primarie che più taroccate non si potrebbe, si accomodi negli States.
rudolph giuliani vestito da donna e donald trump lo seduce
Per un Pat Buchanan tendenza Cruz, c’è una Ann Coulter sfegatata su Trump, un Michael Reagan che fa il figlio di Reagan e scommette che nessuno dei due front runner sarà il prescelto, un Rudy Giuliani, che a New York vale oro, che dichiara formalmente che lui vota Trump, nonostante i ripetuti inviti del rivale texano. Il guru dei neocon, Bill Krstol, si è già sputtanato dal Weekly Standard, proponendo di buttare nell’immondizia i risultati delle primarie e scegliere il nominato in un circolo ristretto di saggi.
Michael Reagan alla convention del 1976 c’era, aveva trent’anni e seguiva il padre Ronald, popolarissimo ma inviso al partito, un Trump di quei tempi, e si ricorda che non fu un appuntamento per educande, che le trattative andarono avanti tra risse e sigarette, promesse fatte a chiunque, perfino la vice presidenza offerta a un moderato della Pennsylvania, Richard Schweiker, che a suo padre faceva orrore, ma i cui voti servivano per raggiungere la maledetta quota di delegati.
Lo scontro con i delegati di New York finì con Nelson Rockfeller, che dello Stato era il governatore, così imbufalito da strappare un apparecchio telefonico dalla postazione dei giornalisti e tirarlo in piena platea mentre urlava insulti irripetibili, si suppone a Reagan. Finì che la spuntò il presidente uscente, Gerald Ford. Oggi suo figlio scommette che alla fine uscirà un terzo uomo e si capisce che pensa allo speaker della Camera, Paul Ryan, uno che ha già perso malamente nel 2012, quando era il candidato a vice con Mitt Romney.
I reaganiani nel 76 se ne tornarono sconfitti e arrabbiati a casa, ma da allora a novembre si unirono alle decisioni e alla disciplina di partito. Reagan junior si domanda se oggi ci sia lo stesso spirito, e anche se i candidati siano in grado di fare accordi. “Se c’è uno che dovrebbe capirlo, quello è Donald Trump, si crede il più grande uomo d’affari del pianeta, ha scritto pure un libro “L’arte dell’accordo”, se non è in grado di farne uno e ottenere i delegati che gli servono per la nomination, forse quel libro l’ha scritto qualcun altro”.
Giusta osservazione, il tempo delle trattative è già scattato, stranamente però Michael Reagan, nel ricordare i valori dei bei tempi andati, dimentica di dire che nel 1976, candidato Ford e partito disciplinatamente unito dietro a lui, finì che vinse quel gran fesso di Jimmy Carter, quello del disastro di Teheran.
I tempi sono cambiati, Buchanan, vecchio reazionario che di campagne ne ha fatte anche tentando di esserne protagonista, ottimo giornalista, predice che se il vertice del partito tramerà per rubare la nomination al candidato che avrà vinto la maggioranza di Stati, delegati e voti, non solo il partito sarà sconfitto alle elezioni di novembre, ma il suo vertice patirà un discredito insanabile tra i suoi elettori.
Imporre Cruz, che a Buchanan piace molto, come alternativa? Ma se ha perso ovunque al sud, se a New York i sondaggi lo danno al 17 per cento contro il 50 di Trump, se solo due senatori su 53 lo hanno appoggiato, se con queste premesse non potrebbe mai vincere? Infine, con simili premesse, come si potrebbe tirar fuori dal cilindro il coniglio Ryan e sperare di non essere massacrati? Conclusione: l’establishment repubblicano non solo non è la soluzione dei problemi, è il problema.
La più incazzata è Ann Coulter, fascinosa e cattivissima, un incrocio tra analista e militante agitatrice dai tempi di Bill Clinton. Reduce dal Wisconsin, ha visto i giornali locali attaccare Trump come se fosse Sanders, il democratico socialista che sfida Hillary Clinton, e non le è piaciuto. Non le piace Cruz, scrive che è manipolatore e bugiardo come i Clinton, come mai avrebbe creduto che un conservatore potesse essere.
Le piace invece molto Trump, ed elenca le issues, i problemi chiave della campagna, che sono diventati tali solo grazie a lui, e che Cruz ha copiato senza pudore, come la barriera al confine col Messico, il blocco all’ingresso di lavoratori illegali stranieri nelle fattorie, lo stop alla legalizzazione degli stranieri illegali. Cruz da senatore per anni non aveva fatto niente contro queste storture, ma oggi, secondo la Coulter, si dedica a criticare i cambiamenti di opinione di Trump sull’aborto, contestandogli una opinione pro choice di 18 anni fa, quando faceva solo l’imprenditore. Oppure lo accusa di essere a favore della riforma sanitaria di Obama, solo perché una volta ha detto “ non intendo lasciare la gente morire da sola in mezzo a una strada”.
E siccome tutti vanno o stanno già a New York, arriva nel dibattito infuocato anche l’ex sindaco Rudy Giuliani, che qualche giornale aveva dato per pronto al passaggio a favore di Cruz, che lo ha insistentemente corteggiato chiedendogli pubblico incontro. Lo ha fatto perché la città gli ha riservato un benvenuto di freddezza niente male. Prima il democratico Daily News, col titolo “tornatene a casa, noi ci teniamo ai nostri valori”, poi due incontri falliti nel Bronx nella zona latina.
Per attaccare Trump, infatti, Cruz aveva attaccato certi valori liberali e laici, insomma immorali, e questa è la risposta corale, anche del super falco Giuliani. “ E’ New York City, noi siamo una famiglia, io posso prenderla in giro, lui no”. Perciò, no way, il 19 aprile Rudy vota alle primarie per l’amico Donald Trump. “Sto con lui- ha detto al Post- è un negoziatore, oggi lo sta facendo in politica per attirare l’attenzione. Quando dice che ci ritiriamo dalla Nato, lo fa per strappare condizioni migliori per gli americani”.
E conclude “Prenderà più del 50 per cento, la stragrande maggioranza dei delegati, 70 o perfino 80 dei 95 in palio, e arriverà ai 1237 della convention”. Il Gop, che nel 2008 respinse Giuliani come un corpo estraneo, è avvisato.
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