DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
VIDEO - MARCO RUBIO: TRUMP HA MANI PICCOLE. E SAPETE COSA DICONO DEGLI UOMINI CON LE MANI PICCOLE...
Maria Giovanna Maglie per Dagospia
Già archiviata la frase sul giorno da leone ripresa dalla retorica mussoliniana? Più che altro non pervenuta. A parte qualche sensibile narice radical chic di qua e di là dell’Atlantico, che volete che gliene freghi in Texas o in Alaska di una frase attribuita a Mussolini. Soprattutto se l’incriminato risponde serafico che gli interessa citare una bella frase, non chi l’ha resa famosa, le armi si spuntano subito.
E così Donald Trump, un muro di gomma che se ne infischia di piacere alla gente che piace, avanza imperterrito e anche un bel po’ incosciente verso l’appuntamento di oggi,super Tuesday, il grande martedì in cui votano democratici e repubblicani in 12 stati (Alabama, Arkansas, Georgia, Massachussets, Minnesota, Oklahoma, Tennessee, Texas, Vermont, Virginia, Alaska e Colorado) e in un “territorio”, quello delle Isole Samoa; il grande martedì in cui vota il sud conservatore, dove ancora i liberal del nord est e dell’ovest sono cordialmente detestati, ma anche il sud nel quale gli avversari di Trump, segnatamente Ted Cruz, senatore eletto in Texas, si giocano una partita decisiva per la sopravvivenza.
O forse se la sono già giocata, se Cruz delira su tasse non rese note dal miliardario perché conterrebbero le prove di rapporti con la mafia; o se il pupillo delle elites conservatrici di qua e di là dell’Atlantico, il bel Marco Rubio , attira gli astanti nei comizi con alta politica del tipo: “Avete notato che Trump è un uomo molto alto ma ha le mani veramente piccole? Che cosa si dice degli uomini grandi con le mani piccole?”, ovvero tentando la carta disperata delle dimensioni degli attributi.
L’ultimo sondaggio della Cnn, reso noto ieri, li fulmina. Donald Trump 49 per cento, Marco Rubio 16, Ted Cruz 15, Ben Carson 10, John Kasich 6, cioè tutti assieme fanno il 47, meno di lui da solo. Non basta, a domanda più precisa sul candidato migliore per risolvere i problemi del Paese, la risposta è Donald Trump, 51 per cento, Ted Cruz 17, Marco Rubio 13, Ben Carson 10.
Il Partito Repubblicano sembra un gigantesco pugile suonato, solo che si dispera perché può vincere, non perché ha già perso. La concentrazione delle primarie, oggi si eleggono 661 delegati repubblicani e 865 democratici, chiude i giochi con largo anticipo sulle convention di luglio.
I voti complessivi per assicurarsi la nomination repubblicana sono 1237 ma l’indicazione di tendenza sarà chiara, e dal 15 marzo scatta un’altra tagliola, il winner takes all, che attribuisce la vittoria totale, tutti i delegati, a chi prende un voto più degli altri. Soprattutto qualsiasi iniziativa la nomenclatura prenda e studi contro l’odiato miliardario, considerato più che un indipendente, addirittura un intruso, sembra tornargli sul muso come un pesante boomerang.
marco rubio donald trump ben carson
Il glorioso giornale filo repubblicano, Boston Globe, quello che sparò l’inchiesta sui preti pedofili appoggiati dal Vaticano, quello del film che ha appena vinto l’oscar, “Spotlight”, ha invitato gli elettori del “Grand Old Party” del Massachusetts a voltare le spalle allo spregiudicato imprenditore, e piuttosto che lui votare democratico. Bene, gli tocca dopo pochi giorni riferire che circa ventimila elettori registrati come democratici hanno cancellato l’adesione e hanno scelto o di votare da indipendenti o di votare come repubblicani. Le ragioni? Il fenomeno Trump, che attrae, interessa, ridà fiato a rabbia e aspirazioni.
Che sarà Trump contro Clinton nello sterminato e fichissimo staff di Hillary lo sanno da un pezzo, da quando ancora prima del New Hampshire, la candidata democratica ha smesso di sfottere l’avversario per dichiararsi molto preoccupata, da quando gli spin doctor hanno tirato fuori la carta un po’ prematura e rischiosa del pericolo per la democrazia, subito ripreso istericamente dal Washington Post, che dalla capitale manda segnali apocalittici.
Solo che il grosso dei consiglieri ha anche creduto che con Trump la vittoria sarebbe facile, tesi questa che si continua a sostenere anche nel Gop, e si è attrezzata a una campagna futura tutta rivolta a ispanici, neri e donne, ai musulmani, insomma alle possibili vittime dell’avversario. Poi è arrivato Bill Clinton, che a cervello li frega ancora tutti, e che Hillary non ha commesso l’errore di lasciar fuori come nel 2008, e ha spiegato che l’uomo ha un dono raro di percepire gli umori dell’elettorato e che le elezioni si giocheranno su pochi voti di differenza.
Perciò non basta accusarlo genericamente di misoginia o di razzismo, bisogna montare una campagna martellante e persuasiva dipingendolo anche come nemico dei lavoratori, come pericoloso per le crisi mondiali che la sua lingua senza freni e il suo comportamento spregiudicato potrebbero provocare.
marco rubio stivaletti col tacco
Unfit to lead, non all’altezza del compito, questa è la linea da perseguire, e guai a non prenderlo sul serio, dice l’ex presidente, come hanno fatto a inizio campagna quei fessi del vertice repubblicano. La verità è che il pagliaccio gode di considerazione maggiore tra i democratici che nel suo partito, e questa sarà ricordata come la principale follia del 2016.
bill e chelsea clinton in campagna per hillary
Per reagire alla figuraccia e alla sindrome isterica che attraversa giornali e tv, il New York Times ha commissionato due puntate di fuoco sulle responsabilità tremende della Clinton nella guerra che ha fatto fuori Gheddafi con l’unico risultato di creare uno Stato incontrollabile e pieno di terroristi, e ora pubblica articoli più realistici sullo stato delle cose.
Dice in uno di questi il governatore del Connecticut, Dannel P. Malloy: "Trump è formidabile, capisce al volo le ansie degli elettori, e sarà spietato con la Clinton. Io sono passato dal diniego, dal pensare “chi vuoi che stia a sentire questo tizio”, all’ammirazione, nel senso che ha capito come catturare l’angustia e la preoccupazione di tutti”.
Nel quartier generale democratico il nuovo mantra è chiaro. Si tratta di un avversario forte, determinato, infaticabile, che parla agli americani come nessun politico tradizionale sembra più riuscire a fare. I repubblicani proveranno ancora a contrastarlo, dice Bill Clinton, e auguriamoci che ricorrano allo strumento estremo di taroccare la convention a Cleveland modificando il voto di un gruppo di delegati, ma non è il caso di farci conto. Meglio capire le radici dell’appello populista di Trump per costruire il caso contro di lui. Sarà una battaglia tremenda.
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