DAGOREPORT - CHI L’HA VISTO? ERA DIVENTATO IL NOSTRO ANGOLO DEL BUONUMORE, NE SPARAVA UNA AL…
Maria Giovanna Maglie per Dagospia
hillary clinton campagna a new york
La Grande Mela vota con i sondaggi freschi che sollevano l’umore dei due front runner, Hillary Clinton e Donald Trump, la prima impegnata contro un Bernie Sanders insidioso e pure fresco di photo-op con il papa populista, il secondo sempre più furioso con gli inciuci di Ted Cruz, alias del vertice del partito repubblicano. Tra i democratici il risultato, stando all’ultimo sondaggio, sarebbe 53 a 41 per la Clinton; tra i repubblicani uno sfavillante 55 per cento a Trump, 21 a Cruz, 18 a Kasich.
Significa quasi un en plein, per fare un esempio con questa percentuale Trump porterebbe a casa 82 delegati su 95, un risultatone che dovrebbe ripetersi in New Jersey e Connecticut. I candidati, con l’eccezione di Cruz che ha capito presto di non avere grandi possibilità, soprattutto dopo aver per mesi accusato Trump di essere rappresentante dei “New York values”, una roba da Sodoma e Gomorra, si sono spesi nella città e nello Stato come non avevano mai fatto in precedenza.
Le ragioni sono molte, perché il voto di New York nel gran casino delle primarie del 2016 ha assunto un ruolo di eccezionalità, è come il sigillo, la prova che sei cool, giusto, che sei realmente un newyorker, lontano dal grigiore di Washington. Fondamentale per la Clinton, che vive da sedici anni a Chappaqua, suburbio di lusso a nordovest, ed è stata a New York eletta senatore nel 2000 e nel 2006.
Certo, il vantaggio presunto di Donald Trump nella sua patria è enorme, prima raggiunto solo in Connecticut, e conferma che la east Coast lo ama. Nei sondaggi dell’ultimo anno, ovvero ben prima di annunciare che si candidava, è sempre stato sopra il 50 per cento dei voti. Questo incredibile successo, insieme all’analisi dei nuovi elettori che porterebbe al voto, ha scatenato le supposizioni degli analisti e degli editorialisti, per tacere dei pensosi sociologi di Harvard, che pare gli sia apparso il diavolo col toupet rosa.
Si fa presto a dire che Trump spopola tra i lavoratori incolti e rabbiosi, tra quelli che sono dei paria sociali, i non connessi. Non vale per New York. E allora? Sarà per come parla, sarà che fare i soldi qui puzza ancora meno di altrove, sarà che vive in un palazzo che si chiama come lui.
O sarà che a New York, città e Stato democratici, anzi liberal, hanno un istinto di legittimazione spregiudicata, un fiuto infallibile, per scegliere quando serve, il repubblicano giusto, da Pataki a Giuliani a Bloomberg, gente che magari ha pessima fama, poi arriva e sistema la situazione. Ora si sono concessi il passaggio liberal, col governatore Cuomo, figlio del mitico Mario, ma soprattutto col radical hippy, Bill De Blasio. Poi di solito rinsaviscono.
Domani capiremo se New York ha incoronato il re palazzinaro. Lo saprà definitivamente anche il vertice del Gop, che tramesta incessantemente e che ora è terrorizzato di perdere a novembre la maggioranza al Campidoglio. Il ragionamento è: Trump attacca incessantemente il partito, lo accusa di essere corrotto e distaccato dai bisogni della nazione, così ci danneggia. Ma la risposta è speculare: se il partito avesse per tempo smesso di contrastare il candidato migliore, o il meno peggiore, nell’opinione degli elettori, un accordo sarebbe stato possibile. Lo è ancora? Difficile dirlo.
Su Ted Cruz, il texano che pure è il senatore più odiato e isolato di Washington per le sue posizioni estreme e perché si porta addosso il fiato delle Chiese più oltranziste, sembra essersi concentrato un riluttante sostegno. Un po’ imbrogliano, un po’ finora su Cruz finiscono gli elettori, pochi, che erano orientati sul cubano di origine, incautamente prescelto, ritiratosi dopo la figuraccia in Florida, Marco Rubio. Per esempio, in Idaho i due si erano spartiti il voto dei mormoni, in Utah i voti sono finiti tutti a Cruz.
Sarebbe la stessa cosa se si ritirasse l’ostinato governatore dell’Ohio, John Kasich? No, Kasich è talmente moderato che lo definiscono un repubblicano/democratico, e, nonostante alcuni vecchi tromboni del partito, come Mitt Romney, continuino a insistere che deve lasciare spazio, il rischio è che parte dei suoi pochi consensi finisca proprio su Trump, il quale, vallo a spiegare agli indiavolati opinionisti italiani, è percepito come un moderato sulle issues sociali e dei diritti civili. Ma è anche considerato un uomo che mantiene quel che promette, e che manterrebbe l’impegno di riportare l’America a una grandezza che si sente perduta.
new york post hillary clinton bernie sanders
Cruz però incassa una capacità organizzativa della sua campagna e dello staff, non a caso Trump ora sta cambiando uomini e investendo denaro. Il processo di selezione dei delegati non è pulito, ma devi saperlo maneggiare. Per capirci, se hai 1237 delegati come risultato di primarie e caucus, la nomination è tua, c’è poco da imbrogliare.
Ma se alla prima votazione la maggioranza non c’è, si va al secondo round e il sessanta per cento dei delegati può cambiare scelta, fare come gli pare, al terzo può farlo addirittura l’ottanta per cento. Finisce che invece degli elettori decidono i delegati, quindi chi sono i delegati è fondamentale. Cruz sta facendo in modo di mettere gente sua nel comitato che sceglie i delegati. L’esempio si è visto in Colorado, dove hanno di fatto abolito il voto degli iscritti e il partito dello Stato ha scelto i delegati: tutti e 34 a Cruz.
Trump si è legittimamente infuriato, ma le primarie da oggi in avanti non sono in Stati così favorevoli al texano, tanto che in caso di convention aperta, di secondo e terzo ballot, i voti dei delegati liberi di scegliere potrebbero finire a Kasich, che infatti non si ritira. Ecco perché, nel gran casino 2016, tutto è ancora da definire, e il voto di New York, Pennsylvania, Maryland, Delaware, Connecticut, Rhode Island, prima del gran finale in California è decisivo. Non sono più né delegati di Stati ideologicamente vicini a Cruz, la cintura della Bibbia, né vicini a Rubio.
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E se Cruz perde la fase positiva, sarà più difficile convincere dei delegati, che pure non amino Trump, ad appoggiare lui invece del front runner, più complicato per il partito fare pressione e spingere a dare un voto sporco, che magari finisca col consegnare la vittoria alla Clinton. Non sarà una roba che odora di rose il processo delle primarie Usa, ma non è neanche come portare ai gazebo cinesi e rom. Stay tuned, da oggi giocano i duri.
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