DAGOREPORT – IN POLITICA IL VUOTO NON ESISTE E QUANDO SI APPALESA, ZAC!, VIENE SUBITO OCCUPATO. E…
di Tina A. Commotrix per Dagospia
Già, non impicciarsi della corsa al Colle più alto sarebbe assai più saggio che mettersi sulla scia dei cronisti che seguono, solitamente ossequiosi e proni al segretario generale, i presidenti della Repubblica.
Una combriccola con tanto di club associativo d’iscritti che nei giornaloni dei Poteri marciti è sopravvissuta a guisa della tanto malfamata “nota politica”. Che pure negli anni Cinquanta e Sessanta conobbe la sua età dell’oro. Erano i tempi dei vari e stimati Mattei, Gorresio e Forcella; il commentatore politico de “il Giorno” che si lamentava per l’esiguità dei suoi millecinquecento lettori.
La brigata superstite è sopravvissuta pure alle picconate di Franceschiello Cossiga.
Il Gattosardo, infatti, si affidò alla penna lirica e impertinente di Paolo Guzzanti, ai tempi inviato de “la Stampa”, per le sue feroci e visionarie esternazioni. Non fidandosi dei gazzettieri che gli gironzolano intorno, smarriti e perplessi di fronte alle sue improvvise sortite. E forse se il “rosso” Guzzanti non avremmo avuto il “nero” Cossiga.
“Io picchiavo sodo, ma all’inizio, prendendomi anche loro per matto, censuravano le mie parole trovandole - chissà? - forse imprudenti o inopportune per i padroni della stampa? Insomma, si autocensuravano. Senza che qualcuno di noi li avesse mai sollecitati a mettere la sordina”, confessò una volta Kossiga all’autrice del dagoniano “Diario di Cuccia”.
In quell’avvio degli anni Novanta, i “quirinalisti” in servizio permanente per la concorrenza (“Corriere” e “la Stampa”, in primis) conobbero così la loro implacabile Caporetto professionale.
E da allora, si aggirano nei saloni reali da reduci malandati della virgola mesta e dolente.
Oggi la storia sembra ripetersi.
A divulgare la notizia, con un rito a dir poco inusuale e poco rispettoso delle istituzioni, che Re Giorgio avrebbe annunciato le sue dimissioni nel corso del suo messaggio televisivo di fine anno, è stato il neo notista de “la Repubblica”, Stefano Folli; grazie anche alle affinità elettive tra il capo dello Stato e il fondatore del quotidiano, il sommo Eugenio Scalfari.
E il giorno dopo che fanno le belle statuine dei riti quirinalizi? Si sono limitate a ratificare il “buco” senza entrare nel merito di quell’improvvisa decisione. Come poi ha ben riferito Dagospia rivelando che quella scelta era stata provocata dalla crescente insofferenza di Re Giorgio nei confronti del premier parolaio, Matteo Renzi.
Ecco perché, dicevamo all’inizio, non appare assennato immischiarsi nell’annunciata kermesse presidenziale. Con il pericolo poi di essere colpiti anche dalla “maledizione” che aleggia sull’ex reggia dove all’esterno montano la guardia, i Dioscuri.
CIAMPI SCALFARO COSSIGA E NAPOLITANO
Al momento di sfidare questo accidente della storia, andrebbe chiarito subito che la “maledizione del Quirinale” non colpisce tanto i suoi illustri inquilini, ma soprattutto quanti aspirano a salire nell’ex palazzo dei Papi e dei Re. Ossia i pretendenti al trono che, viceversa, finiscono per ruzzolare rovinosamente al fondo valle della loro pur onorata carriera politica.
La leggenda racconta che nel 1870 fu Pio IX al momento di abbandonare la reggia a scagliare un terribile anatema su tutti gli usurpatori che vi si sarebbero istallati dopo la cacciata del Papa Re.
E Giulio Andreotti, gran conoscitore di vicende papaline, un po’ scherzando e un po’ incrociando le dita, ne ha conservata (e rinnovata) la sciagurata memoria.
Tant’è che, vittima lui stesso poi di quella “maledizione”, alla vigilia del voto plenario del 1992, Giulio cercò di spiegare ai suoi amici di piazza del Gesù di stare accorti a indicare il nuovo capo dello Stato dopo che - fece osservare soave -, ben tre presidenti democristiani doc non avevano concluso il proprio mandato.
L’eterno Belzebù si riferiva alle precedenti esperienze di Antonio Segni, Giovanni Leone e Francesco Cossiga. Anche se in realtà il Gattosardo anticipò soltanto di qualche mese la sua uscita, anticipata bruscamente al 28 aprile rispetto alla scadenza del suo settennato il 3 luglio.
Fino allora, soltanto l’inviso al partito, Giovanni Gronchi, era riuscito a completare il proprio settennato.
Segni e Leone furono costretti a lasciare per malattia, il primo, e per effetto del presunto scandalo Lockheed, il secondo.
E il cattolico Oscar Luigi Scalfaro, che terminò senza affanni il proprio mandato, a dispetto delle fosche previsioni del Divo Giulio, di lì a qualche giorno salì sul Colle più alto dopo l’ultima imboscata dei franchi tiratori alle spalle di Arnaldo Forlani.
La clamorosa “trombatura” dell’ex segretario Dc, soprannominato il Coniglio mannaro, è forse l’esempio più eclatante di come ci si può rovinare una pur solida reputazione nell’inseguire la sirena presidenziale.
Il 16 maggio 1992, per 29 voti (479 ottenuti sul quorum richiesto di 508) l’Arnaldo furioso conobbe la più cocente delle sconfitte. Una manciata di preferenze che resta ancora il “margine minimo” toccato da un candidato rispetto la linea del traguardo.
E di lì, Forlani nei panni di un Dorando Pietri della politica, forse ebbe inizio l’eutanasia della prima Repubblica.
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