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Francesco Persili per Dagospia
Tremate, tremate, le mosche cocchiere son tornate. Nemmeno ci trovassimo nel bel mezzo del Novecento, quarantotto intellettuali organici firmano il manifesto per Bersani premier e salgono in cattedra per far lezione a se stessi (e a Renzi). Nessuna traccia di eresia, nessuna avventura corsara alla Pasolini nel vasto mare della critica. Nel milieu di pensatori e retroguardie teoriche del bersanismo prevale il confortevole ruolo di custodi dell'ortodossia militante affinché «l'Italia non sia più governata da improvvisatori populisti né da pur valenti tecnici prestati alla politica».
à l'unico graffio del cenacolo di professoroni universitari, politologi, storici, economisti e padri nobili della meglio intellighenzia sinistrata che si ritrovano a sdottoreggiare sulla «politica spettacolare e superficiale, post-ideologica e giovanilistica, che si accontenta di facili slogan e che non marca la differenza fondamentale tra destra e sinistra».
Fumisterie di ovvio dei popoli e luogocomunismo di conserva. Il documento ha le firme, e le stimmate culturali del Pci d'antan: la forza delle radici del partigiano Alfredo Reichlin, il pensiero da ecole barisienne di Giuseppe Vacca, presidente dell'Istituto Gramsci, l'operaismo elevato a potenza di Mario Tronti, lo zio di Renato Zero (really!). Ma il dialogo resta aperto con il mondo cattolico e le migliori tradizioni riformiste.
Tra i firmatari ci sono, infatti anche teologi e le punte di lancia del modello culturale (ed economico) emiliano: Paolo Prodi, il fratello dell'ex premier Romano, fondatore dell'associazione culturale e politica Il Mulino che concede a Renzi almeno «l'onore del virtuosismo mediatico che ha costretto il partito all'accelerazione» e l'economista, marito della piddina Barbara Pollastrini, Pietro Modiano, già dg di Intesa attualmente presidente di Nomisma, la società di consulenza fondata da Romano Prodi.
Si può pretendere di più che la richiesta di una tassa sui grandi patrimoni dai philosophes (non più tanto nuovi) bersaniani. Anche perché la figura dell'intellettuale organico meriterebbe un dialogo che regga il confronto di quello tra Gramsci e Togliatti, avrebbe bisogno non di tromboni sfiatati della linea ufficiale del partito ma di eredi all'altezza di Ignazio Silone e del coraggio civile di Italo Calvino che, dopo i fatti di Ungheria, raccontò il proprio dissenso nei confronti del Pci («un galeone di pirati finito in una secca») scatenando la reazione di Togliatti contro «il letterato che ha scritto la novelletta per buttar fango... »
Crociate ideologiche contro gli intellettuali «giullari di corte», con il Migliore per nulla rammaricato dall'addio di Elio Vittorini (che se n'è gghiuto e soli ci ha lasciato), battaglie culturali in campo aperto non la chiusura nel recinto identitario davanti all'avanzata del Rottamatore.
A leggere il documento spalmato di miele nei confronti di Bersani («un politico che ha il peso sufficiente in Italia e in Europa per far valere con realismo e autorevolezza le ragioni della politica anche rispetto a vecchie e nuove tentazioni tecnocratiche«) verrebbe da rimpiangere perfino Scrittori e popolo del professor palindromo Asor Rosa, con la critica da sinistra nei confronti dell'establishment letterario che faceva riferimento al Pci accusato nientemeno che di populismo.
Altri tempi in cui si dibatteva di nazional-popolare ed egemonia culturale, non si affidava, certo, la scomunica anti-renziana alla formula involuta ed anodina: «Se il rinnovamento è l'esigenza imperativa del presente, esso non coincide con una mera dimensione generazionale e anagrafica: al contrario, deve essere fondato su basi analitiche serie e su un'adeguata progettualità ».
Collezionismo di parole complicate, avrebbe detto Fabrizio De Andrè, della serie "mi spezzo, ma non mi spiego". In ogni caso, «nessun cedimento alla propaganda della piazza pulita che nel nostro Paese ha prodotto solo il gattopardismo», il messaggio arriva dal regista della campagna per le primarie, e storyteller del segretario Pd, lo storico Miguel Gotor, tra le teste d'uovo del bersanismo pret a porter insieme al politologo Carlo Galli, che nel suo libro (I riluttanti) inchioda le classi dirigenti che non esibiscono l'orgoglio del merito e della selezione, questioni che, per inciso, non scaldano il cuore nemmeno ai giovani turchi.
Al manifesto hanno aderito anche docenti come Gian Mario Anselmi che nell'ultima assemblea del Pd, in un afflato operaista, ha punzecchiato Renzi a digiuno di «politica industriale» prima dell'invito catenacciaro a «barricarsi» (ha detto proprio così) dentro «un modello culturale diverso dal liberismo e dal berlusconismo». Contro il neoliberismo populista si è esercitata anche un'altra firmataria, l'economista Laura Pennacchi che è riuscita a trovare convergenze in campo economico tra De Gasperi e Togliatti.
«C'è qualcosa di rilevante che li accomuna», ha esclamato dalle colonne dell'Unità l'intellò bersaniano, Michele Prospero, docente di scienza politica e filosofia del diritto, prima di sparare a palle incatenate contro Renzi e la rottamazione, «un concetto fascistoide». Trattare l'avversario interno come la quinta colonna del nemico ed accusarlo delle peggiori nequizie: niente di nuovo sotto il sol dell'avvenire.
Apprendisti stregoni e foglie di fico dei Millenials, come Alessandro Rosina, autore del saggio Non è un paese per giovani, sulla generazione dei senza voce, vecchie barbe ideologiche e pensatori blasè che hanno in testa il partito ma hanno perso di vista la società : delle alte palme gramsciane non è rimasta nemmeno l'ombra, solo un cotè(chino) di Indiscutibili teorici della sconfitta che si ritrovano a spiegare cosa si dovrebbe fare per vincere. Un rischio anche per Bersani che potrebbe trovarsi - come il suo sosia, il venditore di pedalò Maurizio Ferrini in Quelli della Notte - spiazzato dalle continue oscillazioni di linea del partito a bofonchiare: «Non capisco, ma mi adeguo».
Sul ruolo (di rottura e profezia) dell'intellettuale, invece, si rimanda direttamente a Pier Paolo Pasolini, ai suoi scritti corsari, alle avventure libertarie, ma soprattutto, ad una poesia, il Pci ai giovani, in cui PPP non liscia il pelo alle nuove generazioni ma ne fustiga «le ambizioni impotenti» e gli «snobismi disperati» di chi pensa a chiedere il potere: «Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere di un partito...» Ma a far polemica erano già in ritardo i figli di Pasolini, figuriamoci i nipoti. Partiti anche loro per cambiare il mondo e finiti a cambiare canale. Stop al televoto e complimenti per la trasmissione: tanto anche gli intellettuali di sinistra finiscono, prima o poi, in tv.
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