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“L’IRAN HA SEMPRE VISTO L'ITALIA COME UN PAESE NON TRA I PIÙ OSTILI” – IL CONTORCIMENTO LINGUISTICO DEL MINISTRO TAJANI SERVE A SPIEGARE I RAPPORTI CORDIALI DA 70 ANNI TRA IL NOSTRO PAESE E TEHERAN, DAGLI ACCORDI FIRMATI NEL 1957 DAL PRESIDENTE DELL’ENI MATTEI FINO AL CASO SALA – IN ITALIA NON CI SONO SOLO OPPOSITORI DEL REGIME MA ANCHE MOLTI FEDELISSIMI DEGLI AYATOLLAH ("ESISTE IN ITALIA UN DISPOSITIVO DI CONTROLLO E REPRESSIONE DEL DISSENSO RICONDUCIBILE AL REGIME DI TEHERAN") - L’ATTENZIONE DELL’INTELLIGENCE E’ MASSIMA PER EVITARE BRUTTE SORPRESE...
Francesco Grignetti per “la Stampa” - Estratti
antonio tajani in versione mago di arcella
«Ho chiesto garanzie per i nostri connazionali che sono voluti restare in Iran e per la nostra ambasciata che è rimasta aperta a differenza di quelle di altri Paesi, e ho trovato orecchie attente». Così il nostro ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Allude a un rapporto particolarmente cordiale tra Roma e Teheran.
Ma sono giorni che il responsabile della Farnesina lancia messaggi. Ha detto il giorno dopo il bombardamento americano: «L’Iran ha sempre visto l'Italia come un Paese non tra i più ostili».
Un contorcimento linguistico per dire che noi siamo stati tra i più amici dell’Iran.
La cosa viene da molto lontano, da quell’accordo petrolifero del 1957 che Enrico Mattei firmò con l’ente petrolifero persiano. Fu dirompente per l’industria petrolifera anglo-americana perché per la prima volta un Paese occidentale aumentava considerevolmente le royalties sull’estrazione di petrolio. Fu proprio per l’accordo con l’Iran che Mattei divenne il nemico principale delle Sette sorelle petrolifere e forse ci rimise la vita. E furono le premesse per il boom economico e la modernizzazione dell’Iran (che allora si chiamava Persia).
Da allora, tra Roma e Teheran le cose sono andate sempre bene, pur tra alti e bassi, come riconobbe Paolo Gentiloni, ministro pro-tempore degli Esteri, in occasione del viaggio del presidente Rohani a Roma nel 2016: «Il sogno di Enrico Mattei si è trasformato in realtà. Una realtà di assiduo dialogo politico e collaborazione economica. La scelta dell'Italia come prima tappa della visita in Europa di Rohani è il riconoscimento della perseveranza con cui l'Italia ha sempre scommesso sull'Iran».
La seconda scommessa italiana, naturale corollario di quella petrolifera, fu la costruzione di infrastrutture. Chiedere lumi all’Iri-Italstat, che negli Anni Settanta attraverso la società Condotte e un cartello di imprese italiane costruisce dal nulla il porto industriale di Bandar Abbas.
A quel tempo sono migliaia gli italiani che lavorano in Iran. Rosei i rapporti tra le due capitali. La Persia è retta con ferocia dallo Scià, ma questo sembrava un problema locale e minore.
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antonio tajani giorgia meloni al senato foto lapresse
Così è fino all’esplodere della rivoluzione khomeinista, alla fine del 1978. Il governo italiano dovette organizzare in fretta e furia l’evacuazione dei connazionali. Fu inviato a Teheran il nostro miglior agente segreto, il colonnello Stefano Giovannone, che era di stanza in Libano ma con mandato su tutta l’area.
Giovannone trattò direttamente le garanzie per gli italiani con il presidente Bani Sadr, l’uomo che aveva sostituito lo Scià fuggito all’estero e che guidò l’Iran per un anno appena. Arrivò in zona anche l’allora colonnello Mario Arpino, che poi sarebbe diventato Capo di stato maggiore della Difesa, che organizzò i voli dell’Aeronautica (anche clandestini) per portare via tutti gli italiani da lì. Anche allora, come direbbe il ministro Tajani, per l’Italia c’erano «orecchie attente».
Con la teocrazia di Khomeini tutto cambiò, per non cambiare però fino in fondo.
L’Italia continuò a importare il greggio iraniano. E l’economia iraniana resse all’isolamento internazionale.
Con la crisi degli ostaggi americani in corso, presso la nostra ambasciata si festeggiava con un “garden party” il 2 giugno 1980, presenti circa 350 connazionali e una delegazione di parlamentari di sinistra. E intanto da parte dell’Amministrazione americana, il ministro Cyrus Vance si affidava a noi per tentare ogni strada.
È un filo rosso, insomma, quello dei rapporti tra Roma e Teheran, che torna in tante storie, anche recenti. Non è un caso che, quando c’era da decidere una missione internazionale dei nostri soldati – in Libano nella zona meridionale di influenza di Hezbollah, in Afghanistan nella provincia di Herat, in Iraq a Nassirya – ci fosse immancabilmente una preferenza verso le aree con popolazione musulmana di credo sciita, perché sotto l’influenza iraniana.
Lo scambio tra la giornalista Cecilia Sala e l’ingegnere Mohammad Abedini Najafabadi (accusato di recuperare tecnologie proibite per i droni in uso ai Pasdaran) è potuto avvenire solo perché gli 007 dei due Paesi si parlano. Così accadde già nel 2022 con la viaggiatrice-blogger Alessia Piperno, detenuta per 45 giorni sulla base di un sospetto.
L’Italia è diventata anche meta di una consistente diaspora di iraniani, in fuga dagli ayatollah. Ma non solo.
Ci sono anche molti fedeli al regime. Denunciava qualche tempo fa Samira Ardalani, cittadina italiana, figlia di esuli, portavoce dei giovani residenti iraniani: «Esiste anche qui in Italia un dispositivo di controllo e repressione del dissenso direttamente riconducibile al regime di Teheran».
Le due anime della comunità iraniana sono ora monitorate attentamente dai nostri apparati perché è da quel brodo di coltura che potrebbero venire fuori brutte sorprese. Se ci sono agenti iraniani dormienti, si dà per scontato che siano mimetizzati nella comunità dei dissidenti.
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