DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Estratto dell’articolo di Valerio Valentini per “Il Foglio”
Roma. In fondo, più che una svolta è un ritorno alla prassi. Tutto come prima, come sempre: il che, a volere essere cinici, potrebbe preoccupare ben poco chi sta per lasciare Palazzo Chigi. E però quella rinnovata saldatura tra Berlino e Parigi – sul gas, certo, e non solo – si prefigura come una tenaglia che stringendosi sul governo che verrà metterà in difficoltà l’intero paese. E allora ecco che questa tettonica delle alleanze europee da cui Giorgia Meloni rischia di finire stritolata allarma chi, più di tutti, è garante degli interessi dell’Italia.
Per questo Sergio Mattarella, domani, intervenendo a Malta all’incontro dei capi di stato europei del gruppo Arraiolos, ricorderà – e si vedrà con che toni e che formule – la necessità di rifuggire ogni tentazione di autosufficienza in seno alla comunità del vecchio continente.
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E però, se la refrattarietà della Germania era prevista, quello che brucia è la ritrattazione francese, che dopo aver accompagnato l’Italia sul sentiero della critica a Berlino difende invece la scelta di Scholz – e il tutto per voce della stessa persona, e cioè il titolare dell’Economia Bruno Le Maire. Segno, forse, che le spiegazioni fornite da Lindner ai colleghi durante il summit hanno chiarito il senso della misura tedesca, se è vero che anche Daniele Franco ha raccomandato prudenza, di ritorno a Roma: perché in fondo quei 200 miliardi, spalmati sul 2022 e 2023, non sono poi gran scandalo rispetto agli oltre 60 spesi dall’Italia in questi primi nove mesi, se rapportati al pil dei due paesi. Ma più ancora dei dettagli, la sensazione diffusa a Palazzo Chigi è che a dettare il ripensamento francese sia stato proprio l’incontro tra Scholz e Macron.
E allora si spiega anche la fatica che Roberto Cingolani ha dovuto fare, anche ieri, per tenere compatto il fronte degli stati membri che richiedono a Bruxelles una riforma del mercato del gas. Il confronto via Zoom con Robert Habeck, il più atteso, è stato positivo: le tre pagine di slide e commenti illustrate dal ministro della Transizione al suo omologo tedesco sono risultate convincenti, ma che da quel documento promosso dal Mite si arrivi a una effettiva proposta, da parte della Commissione, in vista del Consiglio europeo di venerdì, ce ne passa (e oggi proseguirà il lavoro diplomatico). Slanci rimasti a mezz’aria, dunque, quelli di Gentiloni e Cingolani, velleità che paiono frustrate e per certi versi perfino in contraddizione.
Perché è chiaro che proporre lo Sure nel giorno in cui si cerca di ottenere un primo consenso sul price cap dimostra quello che gli addetti ai lavori hanno sempre percepito: e cioè che i due, Gentiloni e Cingolani, poco si prendono, e che il primo ritiene impraticabile il tetto al prezzo del gas, e l’altro non si capacita di come così poca sponda il suo ministero abbia trovato dalla struttura del commissario all’Economia. E insomma c’è un motivo se Meloni, di fronte all’obbligo di indicare la strada da seguire, continua ad additarle tutte e nessuna.
sergio mattarella mario draghi
Riceve Cingolani e ne elogia il dossier; insiste perché si abbandonino i toni antifrancesi (“non più ostilità, ora parliamo di reciprocità”) e si cerchi un aiuto proprio in Gentiloni affinché sul piano europeo del RePower Eu, così come sulla possibilità di dirottare i fondi comunitari per la coesione sull’emergenza energetica, si ottengano aperture a Bruxelles. Infine si aggrappa alle parole di Draghi. Che dice l’ovvio, e cioè che “il Pnrr è un piano non del governo, ma dell’Italia, per cui tutti collaborino”; ma in quell’ovvio i dirigenti di FdI ci vedono una mezza parola di benevolenza. Sperando, intanto, che il treno franco-tedesco non sia già partito. Stavolta, senza l’Italia.
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