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SIAMO MESSI MALE: LA CINA VUOLE ESSERE L’ALFIERE DELLA GLOBALIZZAZIONE - IL PAESE DEI DIRITTI NEGATI, DELLE CENSURE A INTERNET E DELLE RESTRIZIONI AI MOVIMENTI DI CAPITALE SI PROPONE COME ALTERNATIVA AGLI STATI UNITI DI TRUMP: “IL PROTEZIONISMO E’ INADEGUATO PER UN’ECONOMIA MONDIALE”

Alessandro Barbera per “la Stampa”

 

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Sui tetti del centro congressi di Davos i cecchini in tuta termica total-white attendono dall'alto i potenti del mondo. Nonostante i meno dieci al sole l' apparato di sicurezza è più vigile che mai. Nell'angolo più cementificato delle Alpi svizzere arriva il nuovo alfiere della globalizzazione, il presidente cinese Xi Jinping. Il messaggio del leader all'Europa è chiaro: se volete il mercato, il mercato siamo noi. L'avreste mai detto?

 

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La Cina dei diritti negati, delle censure a internet e delle restrizioni ai movimenti di capitale si propone al mondo come argine all'isolazionismo americano. Xi si fa accompagnare da tutti i più noti imprenditori di casa: ci sono Jack Ma di Alibaba, Wang Jianlin di Wanda, la presidente di Huawei Sun Yafang, il numero uno di Google made in China Zhang Yaqin e quello di China General Nuclear He Yu, il colosso che costruirà assieme ai francesi di Edf una centrale nucleare in Gran Bretagna.

 

Xi sa che l' Europa non può fare a meno della Cina e la Cina non può fare a meno dell'Europa. Nel discorso di fronte agli imprenditori svizzeri non si è presentato il leader di una nazione che si autoproclama ancora comunista, ma una specie di ideologo liberista: «Il protezionismo, il populismo e la de-globalizzazione sono in crescita, e questo non va bene per una più stretta cooperazione economica a livello globale».

 

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L'Unione a trazione tedesca dipende dalle esportazioni molto più di quanto non accada all'ex impero celeste, che dopo molti anni di transizione ora ha una classe media in grado di alimentare la domanda interna.

 

La visita è carica di significati simbolici, perché la Svizzera è una delle prime democrazie ad aver riconosciuto la Cina comunista, e perché proprio in questi giorni cade il primo anniversario della nascita della Asian Investment Bank, l'istituzione multilaterale che promette di fare della Cina il nuovo motore dell'economia mondiale grazie anche al contributo di Italia e Germania.

 

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La diplomazia cinese ha preparato la tre giorni in ogni dettaglio fin dall'anno scorso, ben prima del voto sulla Brexit e della vittoria di The Donald. Pechino sperava nella vittoria di Hillary, ma nessuno meglio dei cinesi conosce la virtù della necessità. La vittoria delle ragioni populiste nelle democrazie più stabili del mondo è una ragione in più per cercare nel vecchio Continente un sempre più solido alleato commerciale.

 

«Pechino e Bruxelles hanno in comune molto più di quanto non possa accadere con la nuova amministrazione americana», scrive in un editoriale del quotidiano di Stato in inglese China Daily firmato dal direttore del centro euro-asiatico Fraser Cameron. I numeri parlano chiaro: se l'insieme di import ed export vale circa un terzo del Pil americano, le due voci in Europa valgono fra il settanta e l'ottanta per cento.

 

Bruxelles non vuole però che la somma di dare e avere svantaggi l'economia europea.

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Con molta fatica e un duro scontro l'Unione ha concesso alla Cina lo status di economia di mercato, ma ora Bruxelles chiede garanzie. L'industria dell'acciaio cinese è in cronica sovraccapacità: fatta dieci quella europea la loro vale due volte e mezza. Stessa cosa accade in altri settori, dalla carta alla ceramica, dal vetro al cemento fino alla chimica dove il rapporto è uno a otto.

 

Per questo - spiegano fonti europee - a primavera la Commissione preparerà un rapporto per fotografare lo stato delle relazioni commerciali. Dal rapporto emergerà un'Unione troppo export-dipendente, il modello imposto dalla Germania negli anni d'oro dell'espansionismo in Cina e delle fabbriche tedesche che compensavano in Cina l'assenza di manifattura cinese.

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Ora che la Cina cammina sulle sue gambe, ora che il livello di scambi mondiali si è drasticamente ridotto, l'economia del Continente ha bisogno di un maggior contributo della domanda interna. Non è casuale l'enfasi con cui la Commissione preme Berlino perché riveda almeno in parte il suo modello di crescita.

 

Trump può permettersi di stare a guardare? In parte sì, in parte no. Nelle banche cinesi c'è un pezzo di debito americano, e per la Casa Bianca è impensabile una crisi diplomatica con Pechino. Ma Donald ha vinto le elezioni al grido «America First», e almeno in una prima fase deve mostrare i muscoli. A Davos per lui ci sarà uno dei suoi consiglieri più fidati, il finanziere di Wall Street Anthony Scaramucci. Sarà lui a verificare che i messaggi d'intesa fra Pechino e Bruxelles non si trasformino in un problema per Washington.