DAGOREPORT: PD, PARTITO DISTOPICO – L’INTERVISTA DI FRANCESCHINI SU “REPUBBLICA” SI PUÒ…
Cecilia Attanasio Ghezzi per "La Stampa"
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L'accesso al mini-parlamento di Hong Kong sarà limitato ai «patrioti». È questo il senso della nuova legge elettorale approvata all'unanimità a Pechino che andrà direttamente a emendare la mini-Costituzione dell'ex colonia britannica.
«Non esiste una democrazia per tutte le taglie», si è trovata a spiegare in conferenza stampa la governatrice Carrie Lam. La stessa che, nonostante la sua bassissima popolarità sin dal suo insediamento nel 2017, non ha ancora sciolto la riserva sul candidarsi o meno per un secondo mandato. Forse, come sempre, aspetta di essere imbeccata e supportata da Pechino.
Nel frattempo le elezioni legislative che dovevano tenersi lo scorso settembre, posticipate di un anno con la scusa della pandemia, sono state fissate al prossimo dicembre. Ma i cambiamenti sono evidenti.
Aumentano i membri del LegCo, il mini-parlamento (da 70 a 90), e diminuisce la quota eletta direttamente alle urne (da 35 a 20 seggi). Inoltre i funzionari locali avranno il diritto di porre il veto sulle candidature che ritengono «non patriottiche».
Nel complesso sistema elettorale di Hong Kong la gran parte dei seggi sono sempre stata espressione di corporazioni e gruppi di interesse storicamente pro-Pechino, ma da oggi la proporzione passa da circa la metà all'80%.
E vengono inoltre abolite le figure dei consiglieri distrettuali, solitamente legati al territorio e alle istanze dei gruppi pro-democrazia. I loro seggi verranno occupati da rappresentanti scelti tra le forze dell'ordine. Ecco che la quota di candidati eletti direttamente dal popolo viene diluita, annullando quasi completamente il sistema democratico com'era stato pensato dall'ex colonia britannica.
Così si viola, secondo Usa, Gran Bretagna e Unione europea, il trattato internazionale che ha regolato la restituzione del cosiddetto Porto profumato alla Cina nel 1997. Così si tutela, secondo la Repubblica popolare, la sicurezza nazionale e si prevengono i disordini causati dal dissenso.
I gruppi hongkonghesi pro-democrazia, vista la vittoria schiacciante del 2019, infatti, puntavano a conquistare il LegCo alle urne. Ma le elezioni sono state posticipate e molti dei loro rappresentanti sono stati arrestati a seguito della legge sulla sicurezza nazionale in vigore da luglio.
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Come si è visto, il sistema che regola il mini-parlamento era già fatto in modo da tutelare lo status quo. Ma stavolta c'era la concreta possibilità che movimento prendesse la maggioranza dei seggi e, votando per due volte di seguito contro la legge di bilancio, costringesse la governatrice Carrie Lam alle dimissioni.
Una possibilità, prevista persino dalla Costituzione dell'ex colonia britannica, che avrebbe sancito la vittoria, almeno morale, di chi da anni protesta contro l'ingerenza sempre maggiore della Repubblica popolare su quello che fino ad oggi è stato il più importante hub finanziario di tutta l'Asia. Singapore, prevedono in molti, prenderà il suo posto.
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L'accordo tra Margaret Thatcher e Deng Xiaoping sulla restituzione di quella che all'epoca era una colonia britannica, infatti, doveva garantirle per cinquant'anni uno status speciale: «Un Paese, due sistemi», si diceva.
Fino al 2047 Hong Kong avrebbe avuto una mini-Costituzione a garantire libertà di espressione e giusti processi, un sistema pluripartitico ed elezioni a suffragio universale. Ma piano piano tutti i diritti sono stati erosi.
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E lo scontro si è fatto più acceso negli ultimi anni, quando per difendere l'autonomia della città che è di fatto il ponte economico tra l'Occidente e la Cina, sono arrivati manifestare anche due milioni di persone, quasi un terzo della popolazione.
Pechino non ha tollerato quella libertà, ed è proprio questo il punto. Gli abitanti di Hong Kong non sono disposti ad accettare quello che la Repubblica popolare dà per scontato: fare opposizione è un crimine contro lo Stato.
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