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Salvo Palazzolo per “La Repubblica”
Per vent’anni, Marcello Dell’Utri è stato è stato il garante di un «accordo» tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra. Un accordo «di protezione», nato nel 1974, quando a Milano imperversavano i sequestri degli imprenditori e dei loro familiari. Negli anni seguenti, fino al 1992, i boss garantirono a Berlusconi protezione per i suoi ripetitori tv piazzati in Sicilia.
E intanto Dell’Utri continuava a consegnare con «sistematicità» cospicue somme di denaro al boss Tanino Cinà: «Queste erogazioni — scrive adesso la Cassazione — sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra».
Silvio Berlusconi con Marcello DellUtri Foto di Alberto Roveri
Le motivazioni della sentenza che il 9 maggio ha condannato definitivamente Marcello Dell’Utri a sette anni di carcere, per concorso esterno in associazione mafiosa, consacrano anche il silenzio di Berlusconi rispetto alle minacce dei boss: «Il patto di protezione è andato avanti senza interruzioni », scrivono i giudici della suprema corte. Dell’Utri garantì «la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa, in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore».
E così Dell’Utri si ritrovò a svolgere un ruolo di «rilievo per entrambe le parti: l’associazione mafiosa, che traeva un costante canale di significativo arricchimento; l’imprenditore Berlusconi, interessato a preservare la sua sfera di sicurezza personale ed economica».
Oggi, Dell’Utri sta scontando la sua condanna a Parma: dopo l’estradizione dal Libano è ricoverato al centro diagnostico terapeutico del carcere. Il collegio presieduto da Maria Cristina Siotto ricorda che non gli sono state concesse le attenuanti generiche,
perché il «reato commesso è espressione di particolare pericolosità sociale » e la «condotta si è protratta per un lasso di tempo assai lungo».
PRIMI ANNI BERLUSCONI MARCELLO DELLUTRI E MIRANDA RATTI A MILANO jpegGAETANO TANINO CINA
Nelle 74 pagine della motivazione, la Cassazione ripercorre il «ruolo decisivo» (così viene definito più volte) di Dell’Utri: «ruolo decisivo nel dare vita a un accordo fonte di reciproci vantaggi dei contraenti». Secondo i giudici Dell’Utri avrebbe fatto anche di più, fornendo «un contributo determinante, che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale del suo programma criminoso».
I contatti tra Dell’Utri e i boss sarebbero proseguiti anche nel periodo in cui l’allora manager lavorava per il finanziere Filippo Alberto Rapisarda, alla fine degli anni Settanta. Pure allora, rilevano i giudici, Dell’Utri aveva una «costante proiezione verso gli interessi dell’amico imprenditore Berlusconi».
Scrive la Cassazione: «Questa circostanza veniva logicamente desunta dai giudici di Palermo dall’incontro, avvenuto nei primi mesi del 1980, a Parigi, tra l’imputato, i capimafia Bontate e Teresi, incontro nel corso del quale Dell’Utri chiedeva ai due mafiosi 20 miliardi di lire per l’acquisto di film per Canale 5». Fu Rapisarda a svelare questo episodio. E adesso, per la Cassazione diventa un elemento importante. Ma la difesa di Dell’Utri insorge.
Dice l’avvocato Giuseppe Di Peri: «Rapisarda fu ritenuto dal tribunale inattendibile,
quell’incontro a Parigi non è mai stato riscontrato. Così come non è mai emersa la prova che soldi di Cosa nostra siano finiti nelle società di Berlusconi. Piuttosto, da una vecchia telefonata con Della Valle, rimasta intercettata, emerge la volontà di Berlusconi di non cedere ad alcuna estorsione».
La difesa di dell’Utri valuta adesso un ricorso alla Corte europea per i diritti dell’uomo. E, intanto, è un continuo via vai di esponenti del centrodestra dal carcere di Parma. Daniela Santanché lancia un appello: «Ogni giorno da Dell’Utri dovrebbe esserci un deputato, un senatore». A Parma è arrivata anche Iva Zanicchi, al suo ultimo giorno da europarlamentare.
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