DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia
Caro Dago, se un uomo come Pietro Ingrao non lo hai sfiorato almeno una volta nella vita non sai nulla della potenza drammatica del Novecento.
E quando dico “sfiorato”, intendo aver visto almeno una volta da vicino quanto fosse intenso il suo ascendente personale e intellettuale sul “popolo comunista”, tanto che negli anni Settanta potevano dirsi “ingraiani” uomini della qualità di Luigi Pintor e Aniello Coppola, e solo per dirne i primi due che mi vengono in mente;
intendo aver letto i suoi interventi a un qualche convegno dell’Istituto Gramsci al tempo in cui a connotare l’identità del più grande partito comunista dell’Occidente erano Ingrao o Bruno Trentin o Giorgio Amendola, titani imparagonabili ai nanuzzi di oggi;
intendo averlo incontrato seppure velocemente e avere tastato con mano la sua fierezza di comunista che non retrocedeva, lui che era stato direttore dell’ “Unità” al tempo in cui i carri armati russi entrarono a Budapest a mitragliare gli operai e gli studenti, lui che era rimasto nel Pci quando ne erano stati espulsi i suoi amici del “Manifesto” e mi immagino la tempesta nel suo animo quando dové scegliere tra la lealtà al suo Partito e la lealtà a quelli che erano i suoi “discepoli”.
Una volta che lo avevo avvicinato da giornalista, mi disse subito e senza che io gli avessi chiesto nulla che mai e poi mai avrebbe aperto bocca sui dissensi interni al suo Partito. Mai avrebbe detto una parola, che del resto io non gli avevo chiesto.
Eravamo al tempo in cui l’insegna “comunista” stava per essere tolta dalla vetrina del Partito di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer. E sapete benissimo che fosse dipeso da Ingrao, quell’insegna mai l’avrebbero abolita. L’insegna raccapricciante che allude a una delle due massime tragedie politiche del Novecento, il regime in nome del quale sono stati massacrati a milioni e a tutte le latitudini.
Naturalmente di quei massacri Ingrao non portava la minima responsabilità, e anche se non so come sarebbe andata a finire nel 1948 se avessero vinto i comunisti italiani e non Alcide De Gasperi (“Ci ha salvati da noi stessi”, mi disse una volta Riccardo Lombardi). Naturalmente l’esser “comunista” al modo in cui lo intendeva Ingrao niente aveva a che vedere con quei massacri. Comunista, sì, lui lo è rimasto sempre.
Nei suoi ottant’anni, nei suoi novant’anni. Quando si stava allentando la sua fierezza fisica, non la sua fierezza ideale. Di cui è rimasto abbigliato sino alla fine, e a questo modo ognuno di noi lo deve ricordare, ivi compreso chi come il sottoscritto reputa l’aggettivo “comunista” altrettanto indecente – sul piano storico e intellettuale – che l’aggettivo “nazista”.
Ma per l’appunto, che cosa intendevano Ingrao e i suoi amici dei Settanta per “comunista”, che cosa avrebbero voluto fare e decidere e come regolare le cose degli uomini e della società moderna? Come, dannazione, come? E io oggi rabbrividisco se mi si presenta uno che si autodefinisce comunista.
Perché le loro parole non hanno più la potenza drammatica del tempo fulgido di Ingrao e dei suoi compagni, e bensì il sapore rancido di cose morte e sepolte nel disonore. Il sapore dell’orrore del Novecento, il secolo più drammatico di tutti. Addio a un grande figlio di quel secolo, addio Ingrao.
GIAMPIERO MUGHINI
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