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Maurizio Giannattasio per il "Corriere della Sera"
«La campagna contro la legge bavaglio è sbagliata... capita troppo spesso che, a seconda dell'orientamento politico, vengano pubblicati determinati atti e non altri. Ti sembra giusto?». O ancora: «Nello scontro tra politica e magistratura si è, in molti casi, strabordato, credo da entrambe le parti». Di più: «Il piano casa di Amintore Fanfani era straordinariamente importante. Sapeva di perdere nella battaglia sul divorzio ma ci ha messo la faccia». Gran finale: «Durante le lezioni di don Giussani c'era un'attenzione incredibile. Non si parlava di catechismo ma di esperienza di vita, di religiosità , di spiritualità ».
Indovinate chi l'ha detto. Un convinto berlusconiano? Un orfano terzista della vecchia Dc? Un adepto di Cl? Acqua, acqua. Aggiungiamo allora un particolare: «Non penso affatto a un'autocandidatura (nazionale, ndr). Ho preso l'impegno di occuparmi di Milano e intendo continuare a occuparmi di Milano».
Spiazzante, Giuliano Pisapia. Così come spiazzante è stata la sua vittoria alle comunali di Milano contro una macchina da guerra come Letizia Moratti. Nessuno nei media e tra gli esperti di politica (salvo rarissimi casi) ha capito cosa stava succedendo nel capoluogo lombardo e ancora adesso in molti fanno fatica a comprendere il «fenomeno Pisapia». Prova a spiegarcelo un libro. «Due arcobaleni nel cielo di Milano (e altre storie)» che porta la firma dello stesso Pisapia insieme con Stefano Rolando e la prefazione di Ferruccio de Bortoli (il libro, pubblicato dalla Bompiani uscirà il 19 ottobre). Titolo enfatico, ma libro illuminante. Perché per la prima volta ci fa entrare nel «magico mondo di Giuliano».
Duecento domande a cui il neosindaco di Milano e avvocato penalista in aspettativa, non si sottrae. Ne esce una figura composita, a tratti persino contraddittoria, lontana mille miglia dalle ideologie, che non rinnega il suo passato extraparlamentare (Servire il popolo) che rivendica la sua amicizia con Vendola, che si riconosce con orgoglio nella sinistra radicale ma che affonda le sue radici nel pragmatismo dell'associazionismo cattolico (dalla scuola di Barbiana di don Milani alla Nomadelfia di don Zeno).
E che ha una stella polare: provare sulla sua pelle ciò di cui si occupa. Eccolo operaio chimico alle porte di Milano, in un campo profughi del Kosovo, al servizio militare come marmittone invece che allievo ufficiale per «stare vicino al proletariato», nelle carceri per difendere diritti e garanzie individuali, a Firenze con gli angeli dell'alluvione, in India per incontrare i santoni, nel deserto da solo con la moto.
Allora anche quegli «scarti» che fanno sobbalzare sulla sedia perché aprioristicamente non te li aspetti - la difesa della legge bavaglio, le critiche alla magistratura, la stima per Don Giussani conosciuto al Berchet - si ricompongono nel puzzle della vita di questo borghese atipico.
Soprattutto fanno capire quella «capacità dialogante» basata sull'esperienza personale che gli ha permesso di mettere insieme mondi all'apparenza inconciliabili: dal popolo arancione, alla società civile a un democristiano d'antan come Bruno Tabacci. Un «giocatore capitano», come ama definirsi.
«Quello che deve parlare con l'arbitro e interloquire con gli avversari». Pisapia la chiama la «buona politica» coniugata al diritto-dovere di dire la verità . Anche se spiacevole. Ce la farà a mantenere le promesse? Lui vorrebbe che alle etichette cucitegli addosso in questi sessanta e passa anni se ne aggiungesse un'altra: quella di «buon amministratore». Lo diranno i milanesi tra meno di cinque anni.
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