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Antonio Gnoli per “la Repubblica – Robinson” – 15 dicembre 2024 - Estratti
ALDO TORTORELLA IN UN DISEGNO DI RICCARDO MANNELLI
Finiamo la nostra lunga conversazione, un po’ più di due ore, e resto sorpreso dalla tenuta fisica e mentale di Aldo Tortorella che ha 98 anni ed è stato un esponente di spicco del partito comunista italiano.
Mi sorprende ancora quando mi chiede se ho voglia di salutare la moglie malata. È nella stanza accanto seduta in poltrona, da quattro anni lotta con la memoria. Provo un senso di tenerezza e di malinconia davanti a questa donna che è stata un’importante giornalista dell’Espresso (Chiara Valentini, ndr).
(...) In fondo il comunismo di Aldo Tortorella e questa profonda dedizione: “alla vita giusta”, lui dice con la sua erre blesa. Quella erre che fu un’eccezione in un partito votato alla durezza.
Tortorella lei è stato un’importante figura del comunismo italiano che ha trovato compimento nella collaborazione con Enrico Berlinguer. Ha visto il film “La grande ambizione”?
Me lo hanno fatto vedere qui a casa, sa esco raramente.
Che ne dice?
È affettuoso. Racconta una parte della vita di Berlinguer. Quella che va dal 1973 al 1978, l’anno del rapimento e della morte di Aldo Moro.
Forse la parola “affettuoso” è la più giusta. Berlinguer era una brava persona, recitava Giorgio Gaber.
Era una brava persona, certo. Ma è stato anche qualcosa di più del rassicurante vicino della porta accanto.
Immagino pensi al leader.
Alle responsabilità e al peso che certe decisioni comportano in un leader. A Berlinguer non è mai mancata la determinazione e con essa la chiarezza delle scelte. Nella sua stanza c’era il ritratto di Gramsci e non di Togliatti. Era il segno di un affetto sardo, ma anche qualcosa di più emblematico. Qualcosa che non gli è stato perdonato.
Aldo Tortorella Enrico Berlinguer
Cosa non gli fu perdonato?
Per esempio che lui avesse dimenticato Togliatti. Ma vede era in corso una battaglia culturale e politica. Berlinguer avvertì la necessità di rivolgersi a culture che non erano nate all’interno del movimento operaio.
(…)
A quali altre culture pensava Berlinguer?
enrico berlinguer giorgio napolitano
All’ecologismo, al femminismo della differenza, al pacifismo e poi alla questione morale. Provare a stabilire un nuovo rapporto tra politica ed etica. Il che richiedeva una reinterpretazione di Machiavelli. Ossia la rinuncia al machiavellismo, all’idea che il fine giustifica i mezzi. Senza uno sguardo etico la politica è solo occupazione del potere. Sono queste convinzioni che hanno creato un vuoto nel partito attorno a Berlinguer. Lì dentro è come se fosse morto da solo.
Lei in che relazione era con Berlinguer?
Entrai nel 1981 nella segreteria dell’ultimo Berlinguer.
Perché venne scelto?
Forse perché la mia formazione era molto diversa da quella degli altri componenti. Ero stato educato alla scuola di Antonio Banfi, quindi al razionalismo critico. Mentre larga parte del gruppo dirigente era, come le dicevo, storicista e togliattiano.
La formazione deve anche qualcosa alla sua famiglia?
Sono nato a Napoli, in realtà dopo pochi mesi con i miei ci trasferimmo a Genova. E poi definitivamente a Milano. Mio padre era avvocato. Ho voluto bene ai miei genitori, ma non hanno inciso sulla mia formazione. Al liceo ebbi un professore che fu importante. Si chiamava Mario De Micheli era critico d’arte e comunista. Fu lui a favorire il mio ingresso nella Resistenza nel 1943. Proprio quell’anno mi iscrissi alla facoltà di filosofia. Ero precoce negli studi. Dopo il liceo scientifico volevo iscrivermi a biologia. Fu il professore di matematica a scoraggiarmi. Pensava fossi più adatto alle discipline umanistiche. Non aveva torto. Perciò scelsi filosofia.
Banfi quando comparve?
Seppi di lui credo attraverso De Micheli. Banfi insegnò Estetica e Storia della filosofia prima a Genova e poi a Milano ed era comunista. Mi piaceva l’idea di mettere assieme l’impegno politico con quello culturale. Ma nel 1944, a causa di un delatore, venni arrestato dai fascisti. Mi ammalai e dal carcere comune fui mandato nel reparto carcerario dell’Ospedale Maggiore. Riuscii ad evadere grazie al primario che era in contatto con il CLN.
Immagino che entrò in clandestinità.
Interruppi l’università ed Eugenio Curiel, brillante studioso di fisica e capo del Fronte della Gioventù, che sarà assassinato dai fascisti, mi spedì a Genova per tentare di riorganizzare il Fronte che nel frattempo – tra arresti e deportazioni - aveva subito molte perdite nel gruppo dirigente. Alla vigilia della Liberazione il partito mi mandò a lavorare all’Unità.
Aveva già esperienza giornalistica?
No, ma nel partito erano in pochi con un curriculum scolastico adeguato. La gran parte degli iscritti era di estrazione operaia e aveva formato la propria cultura dentro il partito. Lasciai Genova con la carica di Caporedattore per assumere la direzione dell’Unità nell’edizione milanese. Ripresi anche a frequentare l’università e a seguire le lezioni di Banfi con cui mi laureai nel 1956.
Con quale tesi?
L’argomento era la libertà in Spinoza. La tesi è che senza libertà non c’è eguaglianza, ma non è vero il contrario. Ci può essere eguaglianza senza libertà.
(...)
Con il 1956 giunsero altri drammi, provocati dall’invasione sovietica di Budapest. Lei decise di restare nel partito. Perché?
Ero intenzionato ad andarmene. Ma poi rimasi perché Banfi restò, come restò Ingrao e guardi non ero ingraiano. Volevo ritornare agli studi, tra l’altro mi ero appena laureato. Mi confidai con Banfi. E lui mi disse: senta, ci si dava del lei, se andiamo via anche noi cosa rimane del partito?
Banfi morì l’anno successivo. Ritiene che ci sia una qualche relazione con quello che stava vivendo? Dopotutto, molti suoi allievi scelsero la condanna chiara dell’Unione Sovietica.
Sinceramente non lo so.
In fondo restò “solo” come Berlinguer.
Uno la solitudine la visse sul piano culturale. L’altro su quello politico.
Lei è stato responsabile culturale del Pci. C’è una storia che mi incuriosisce.
Quale?
La vicenda che riguardò le opere di Nietzsche. Sappiamo del modo in cui Einaudi rinunciò alla pubblicazione. Che ruolo ebbe in questa scelta il Pci?
Ricordo che ne discutemmo in direzione, cosa mai accaduta fino ad allora, per un autore considerato di destra. Amendola e Pajetta mi criticarono in direzione perché la cultura del partito reagiva tiepidamente o non reagiva affatto alle ondate nicciane degli anni settanta. Per fortuna la direzione di Torino aveva pubblicato le memorie di Elvira Pajetta, la mamma di Gian Carlo, una comunista strepitosa e brillante. E quelle memorie c’era scritto che la sua trasformazione culturale era dovuta a Nietzsche che l’aveva liberata da tanti luoghi comuni. Dissi a Pajetta: perfino tua madre ha letto Nietzsche!
C’erano motivi ideologici.
aldo tortorella enrico berlinguer
Certo! Ma voleva pur dire qualcosa che il massimo traduttore ed esperto di Nietzsche fosse comunista.
Si riferisce a Mazzino Montinari.
Al lavoro critico che ha svolto insieme a Giorgio Colli. Da parte mia non ci fu mai una censura nei riguardi di Nietzsche. Ecco perché la scuola di Banfi era così attraente, insegnava a capire.
Oggi c’è ancora questa volontà di capire?
A chi pensa?
Innanzitutto alla sinistra.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica c’è stata la globalizzazione del capitale che si è espanso liberamente in tutto il mondo. Qualcuno a sinistra ha pensato che fosse un bene in realtà ha prodotto diseguaglianze fortissime. Ma se la sinistra rimuove le sue idealità credibili se dimentica di battersi per le classi subalterne e precarie allora prevarranno i sentimenti ancestrali. Quelli su cui in questi anni ha fatto leva la destra e non solo in Italia.
Tra un po’ sfiorerà il secolo. Quanta amarezza ha pensando al suo passato?
Non ho amarezze. Se non quelle di un vecchio quasi centenario e di una moglie malata. Il partito comunista è stato una grande comunità. Ma non c’è più.
Sono stati più i fallimenti o i successi?
I successi sono stati storici e penso alla Costituzione, l’unica che contiene il principio dell’eguaglianza sostanziale. Ma quella generazione di fondatori, anche la mia intendiamoci, ha vissuto nell’errore che il socialismo fosse nato nell’Unione Sovietica. Era considerato una verità non più un’ipotesi. Questo sostenne Togliatti in un dibattito con Bobbio nel 1954. Ma ammesso che fosse un fatto non era di per sé giusto. Lei ricorda il giuramento di Stalin nel 1924 alla morte di Lenin? Da quel discorso allucinante si ricava il lato mistico e dogmatico sulla fondazione dell’uomo nuovo e sui principi del socialismo. L’abbaglio cominciò lì.
Tortorella, Ingrao, OcchettoAldo Tortorella
aldo tortorella achille occhetto
berlinguer a mosca con pajetta e cervetti
ENRICO BERLINGUER - SEZIONE PCI A PONTE MILVIO A ROMA
russo jervolino dalema tortorella mancino bertinottiugo sposetti rosa russo jervolino tortorella
prima della fine. gli ultimi giorni di enrico berlinguerenrico berlinguer achille occhettoenrico berlinguer achille occhettoenrico berlinguergiorgio napolitano con enrico berlinguer al mare all isola d elba el 1978
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