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Mattia Feltri per "La Stampa"
«Ha presente Nelson Mandela, che giace a letto moribondo, e attorno i parenti già discutono di eredità ? Ecco, la situazione è quella». Non è una bella immagine, povero presidente Berlusconi.
Però è l'immagine giusta. Qui in Transatlantico, alla Camera dei deputati, gli onorevoli del Pdl si guardano attorno cercando di capire quale futuro attende loro e il partito. «Attenzione: non è il momento di fare distinzioni ornitologiche. Né falchi né colombi né polli: siamo tutti con il presidente. Siamo tutti persuasi che sia vittima di una persecuzione giudiziaria e la difesa di Silvio Berlusconi è la difesa di dieci milioni di voti».
Però. Ce ne sono molti di però. Ognuno ha un però. «Però non mi citi», è il primo però. La sopravvivenza è una questione che ha spesso fatto rima con prudenza e la prudenza sconsiglia di affrontare a cielo aperto il tema del funerale e della successione.
Tutto si abbozza qui dentro, e comincia a prendere forma con il colloquio telefonico con un amministratore pidiellino piemontese: «Noi non siamo in grado di dire basta Berlusconi. E nemmeno vogliamo farlo perché significa essere traditori. A Berlusconi dobbiamo tutto, una grande avventura, lustri di governo nazionale e locale, ma da troppo tempo il partito è bloccato. Da anni inchiodati alle grane romane e alla giustizia. Noi qui andiamo avanti perché abbiamo un dovere istituzionale, ma non c'è coordinamento, non ci sono riunioni, non abbiamo direttive. Si procede per volontariato. Qualche volta ci viene da augurarci che tutto finisca, e Berlusconi mi perdoni, ma forse sarebbe l'unico modo per provare a ricostruire qualcosa e ripartire».
Eccone un altro, un ex parlamentare ora sindaco: «Ah certo che è così: a livello locale ognuno fa per sé. Il partito è finito da secoli. Non se ne sono visti gli effetti subito, ma col tempo sono stati evidenti: potrà piacere o no, ma è da quando non c'è più Claudio Scajola che Forza Italia, o il Pdl, non hanno più interesse a quello che succede sul territorio. Qui da noi, ma anche a Roma, la gran parte pensa che tutto si dissolverà , a destra come a sinistra e sarà un bene: tutti ricominceremo da capo. Da dove chissà , ma basta con questa prigionia».
Le ragioni sono molte, ma la principale viene spiegata da un deputato lombardo: «Il dopo Berlusconi non è cominciato adesso, ma è cominciato con la fine del governo di centrodestra nel novembre del 2011. Lì abbiamo avuto la certezza che Berlusconi a Palazzo Chigi non ci sarebbe tornato mai più. Da allora pensiamo a quando ci toccherà diventare grandi, e così da oltre un anno e mezzo siamo concentrati sul fuoco nazionale, senza peraltro trovare soluzioni, e trascuriamo il fuoco locale».
Un'altra ragione la spiega uno dei pochi a metterci il nome, Giuseppe Moles, lucano, ex deputato, a lungo assistente di Antonio Martino e ancora fluttuante a Montecitorio: «Capisco che la situazione giudiziaria di Berlusconi inchiodi il partito a una battaglia peraltro sacrosanta.
Ma i problemi del Pdl sono nati con la nascita del Pdl medesimo: si è trattato di un amalgama non riuscito, che ha portato dentro di noi la regola delle correnti e del clientelismo. Forse il ritorno a Forza Italia sarebbe una chance». Un esito che il Grande Capo non è stato capace di evitare. Altro parlamentare, questo eletto in Veneto: «Ho visto delle scene incredibili: pizza, birra e tessera, tutto a dieci euro. Idea dei nostri amici di An.
Ma come si fa a pensare che un partito del genere funzioni? Come si fa a pensare che al nostro interno domini la legge del merito e della volontà quando abbiamo celebrato dei congressi regionali a colpi di tessere, chi ne aveva di più prendeva il comando? Come si fa a pensare che funzioni una rete che va dal piccolo sindaco di provincia, ai coordinamenti provinciali, a quelli regionali fino ai parlamentari e a via dell'Umiltà ? Ci sono amministratori locali che chiamano me perché il loro coordinatore provinciale non gli parla dal momento che non appartengono alla sua ghenga».
Ecco: bella aria, vero? Eppure Berlusconi è assolto. Almeno qui, almeno politicamente è senza colpa. E attorno alla rinascita di Forza Italia si gioca la piccola illusione. Massimo Palmizio, deputato emiliano: «Io vengo da Publitalia. Nel 1994 ero uno dei venti coordinatori circoscrizionali di Forza Italia. Avevamo un partito leggerissimo, in cui tutti parlavano con tutti, in cui c'era spazio per le idee, quelle dei democristiani liberali, dei socialisti, dei repubblicani, dei liberali medesimi.
Nessuno si sarebbe sognato, come non si sogna di farlo ora Berlusconi, di dare indicazioni su valori non negoziabili: per certi temi c'era massima libertà e ora non c'è più. Se torna Forza Italia, ed è la Forza Italia del '94, io ci sono ancora. Altrimenti vado a fare altro».
Si può parlare con quelli delle origini, Palmizio appunto, oppure Giancarlo Galan, affrontare lo strano gioco della nostalgia, pensare a quelli (che cosa fa il tempo...) che oggi sarebbero giganti: Lucio Colletti, Piero Melograni, Marcello Pera, Giorgio Rebuffa, Giuliano Urbani, Saverio Vertone. Tutto spazzato via da vent'anni folli, in un'irresistibile involuzione. «Poi ci sono quelli arrivati dopo. Ricordate che chi tradisce una volta tradirà ancora. Capisco tanti di noi, che siamo peones, esausti di vivere in un fortino e non vediamo l'ora che tutto finisca, comunque debba finire.
Capisco gli amministratori locali, abbandonati a sé stessi. Capisco meno tutta quella corte dei miracoli che gira attorno a Berlusconi come gli avvoltoi. Di chi parlo? Mah, andate a vedere chi partecipò alla kermesse di Italia popolare , dicembre 2012, e andate a vedere chi di noi inneggiava a Mario Monti (Gianni Alemanno, Fabrizio Cicchitto, Maurizio Sacconi, Roberto Formigoni, Maurizio Lupi, Gaetano Quagliariello, ndr), aggiungete Angelino Alfano: il catalogo è questo».
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