“OBAMA PERDENTE”: MEDIA ISRAELIANI IMPIETOSI CON BARACK, LA COLOMBA SPENNATA - MA QUALCUNO SPERA NEL DISARMO IRANIANO

Francesca Paci per "La Stampa"

A leggere i quotidiani israeliani di tre giorni fa, day after dell'iniziativa russo-americana per fermare la crisi siriana, non c'era da farsi grandi illusioni: «Obama il perdente», sentenziavano con diverse ma poco sostanziali sfumature i giornali del più fedele alleato statunitense in Medio Oriente, sottolineando la resa di Washington al pressing russo in difesa di Assad.

«Reagan si rivolterà nella tomba a vedere il ritorno dei russi grazie a Obama» scriveva sul «Maariv» il professore della Bar Ilan University Yehuda Balanga. Perfino sul liberal «Haaretz» campeggiava una simbolica foto del presidente Usa di schiena con lo sguardo rivolto in basso, lontano. E anche ora che la comunità internazionale ha concordato di concedere una estrema chance alla pace, il premier Netanyahu, notoriamente poco affine a Obama, non nasconde il disappunto. «Il messaggio ricevuto a Damasco sarà compreso nitidamente in Iran» continua a ripetere Bibi, ricordando come il proprio paese debba «sempre essere in grado di proteggersi da solo, contro qualsiasi minaccia».

In realtà, sebbene Obama non abbia mai scaldato il cuore degli israeliani sin da quando, nel 2009, appena eletto, tenne il suo primo discorso al Cairo, il giudizio è altalenante. Certo, i sondaggi non sono lusinghieri: una delle ultime rilevazioni indica un gradimento del 33%, una percentuale minima per un inquilino della Casa Bianca che allinea eccezionalmente l'umore degli israeliani a quello degli arabi.

E anche se nel frattempo l'amico americano si è recato in visita a Gerusalemme, la sua mai celata volontà di aprire un canale con gli ayatollah anziché tener loro la pistola puntata addosso non riscuote grande successo nel paese in cima alla lista nera di Teheran. Eppure, giorno dopo giorno, tra quei militari e i responsabili della sicurezza meno vincolati dei politici alle dichiarazioni roboanti si fa strada l'idea che, se avesse buon esito, la messa in sicurezza delle armi chimiche di Assad potrebbe servire con l'Iran.

«Israele sta seguendo la reazione della comunità internazionale come fosse un test, se si dimostrasse capace di mettere le mani su tutto l'arsenale siriano creerebbe una sorta di precedente per l'Iran» ammette al «Washington Post» Oded Eran, ex diplomatico dell'ambasciata israeliana di Washington. Anche perché, aggiunge una fonte militare, «al punto in cui siamo non dobbiamo aspettarci nulla di buono da un intervento comunque non risolutivo».

Per le strade di Tel Aviv, dove nelle settimane scorse sono andate a ruba le maschere antigas, il dibattito non è caldissimo. In parte perché la minaccia di un attacco dal confine nord è considerata una routine quanto lo jogging serale sul lungomare e in parte perché la posizione del governo israeliano sulla Siria non è stata costante, tacitamente pro Assad fin tanto che sembrava essere il miglior garante di una stabilità risalente al 1973 e poi, dopo l'entrata in campo delle milizie di Hezbollah, sempre più favorevole all'intervento.

«Non credo che qui la gente abbia voglia di un'altra guerra, Assad è orribile ma se l'alternativa è peggiore meglio ridimensionare gli istinti bellici» ragiona il grafico 42enne di Petah Tikva Ron Hillel, un liberal che detesta Netanyahu ma che quando parla di Obama lo chiama ironicamente «Barack Hussein» per marcare come lo consideri troppo sbilanciato a favore dei «cugini».

I titoli dei giornali restano negativi perché, spiega il direttore dell'emittente Channel 10 Nadav Eyal, «siamo tutti d'accordo che eliminare le armi chimiche siriane senza un attacco sarebbe un risultato fantastico, ma siamo anche molto scettici». Gli esperti avvertono che per eliminare un chilo di sostanze letali servono mille dollari e non si vedono volenterosi donatori per le circa mille tonnellate siriane.

Ma nel frattempo qualcuno, come l'ex capo della divisione strategica della difesa israeliana Shlomo Brom, ammette che l'iniziale reazione dei suoi connazionali alla decisione di Obama di rivolgersi al Congresso è stata forse «infantile», espressione della diffidenza verso un presidente che pur non avendo diminuito di un dollaro il sostegno americano a Israele ha sempre risentito del confronto perdente con George W. Bush.

 

 

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