IL PARADOSSO DEI CIE: COSTANO MOLTO (55 MLN ALL’ANNO), NON SERVONO ALLO SCOPO E SONO DIVENTATI CAMPI DI CONCENTRAMENTO

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Andrea Rossi per "la Stampa"

Non sono carceri ma hanno sbarre e filo spinato. Sono strutture «di passaggio» ma c'è chi ci resta un anno e mezzo. C'è una legge che li istituisce ma nessuna che li regola: ogni prefettura agisce per conto suo. Il ministro per l'Integrazione Kyenge dice che «non si possono trattenere 18 mesi le persone soltanto perché non hanno un documento».

Dice anche che la maggior parte degli immigrati rinchiusi nei Cie, i centri d'identificazione ed espulsione, arrivano dal carcere e sono già identificati. E questo è meno vero. Anzi, è il motivo per cui aver utilizzato per quindici anni i Cie come principale arma di contrasto all'immigrazione irregolare è stato come svuotare il mare con un cucchiaino.

Quando nacquero, nel 1998, con la legge Turco-Napolitano, si chiamavano Centri di permanenza temporanea. Dieci anni dopo, il governo Berlusconi cambiò loro nome e ragione sociale: centri di identificazione ed espulsione. Ma i Cie non riescono a fare nessuna delle due cose. Una ricerca del professor Alberto Di Martino, docente di diritto penale alla Scuola superiore Sant'Anna di Pisa, ha scoperto, dai dati delle prefetture, che sono un'arma spuntata: il 20-30 per cento (a seconda degli anni) di chi vi transita non viene identificato e perciò, trascorsi i termini, torna in libertà. E nemmeno la metà degli immigrati rinchiusi termina il suo viaggio su un aereo che lo riporta in patria.

Per aiutare le autorità a dare un nome agli «ospiti» dei Cie nel 2011 si è presa una decisione drastica: estendere da 6 a 18 mesi il periodo massimo di detenzione. Niente da fare; in compenso, complici le condizioni di vita - 6-8 persone in 25 metri quadrati - le fughe si sono moltiplicate: prima, appena due detenuti su cento riuscivano a scappare; dai primi mesi del 2011 le evasioni hanno superato il 7 per cento. Chi non ce la fa, a volte perde la testa, come dimostrano le sempre più frequenti rivolte.

Anziché fare progressi, l'efficacia delle strutture è precipitata: dai Cie passano circa 10 mila persone l'anno (un'inezia, secondo le stime in Italia vive oltre mezzo milione di immigrati senza permesso), ma la metà resta in Italia. Detto del 30 per cento rilasciato con un foglio di via perché non identificato, e del 7 per cento di evasi, restano i molti che abbandonano le strutture perché in precarie condizioni di salute e chi dentro i Cie muore. Resta soprattutto un'altra falla nel sistema: un immigrato su dieci vince il ricorso davanti al giudice di pace e torna libero.

I Cie non sono efficaci, però costano. Oltre cinque milioni l'anno se ne vanno in burocrazia e spese legali. Ogni immigrato ha diritto al gratuito patrocinio: costo 350 euro più 20 per ogni udienza e 10 per ciascun ordine di convalida. Di Martino ha calcolato che dal momento dell'ingresso in un Cie al rimpatrio si spendono più di 10 mila euro per ciascun «ospite». È il costo minore. I centri d'identificazione sono 13, per 1900 posti. Ogni persona costa 55 euro al giorno.

Nel 2011 è stato stabilito di ridurre la spesa a 30 euro, con appalti al massimo ribasso, anche a costo di rendere ancora più esplosiva la situazione. La gestione costa comunque 55 milioni l'anno, cifra destinata a lievitare a 97 perché molte strutture verranno ampliate. Uno degli effetti dell'aumento del periodo di detenzione è proprio questo: i posti non sono più sufficienti, se ne devono creare altri 3 mila. Tra il 2008 e il 2012 sono stati spesi 100 milioni per finanziare la costruzione di nuovi posti: 78 mila euro ciascuno. Ne mancano 240 per completare il programma di ampliamento.

È una spesa sostenibile? Di Martino sostiene di no. «La percentuale di detenuti, o rimpatriati, paragonata alle stime sul numero di immigrati irregolari in Italia, è incredibilmente bassa: questo mostra l'inefficacia della detenzione come strumento di contrasto».

 

 

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