SEZIONE TAFAZZI – IL PD SI COMPATTA SUL RITORNO AL VOTO MA SUI TEMPI È GUERRA TRA RENZIANI E CULATELLO BOYS

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Maria Teresa Meli per il "Corriere della Sera"

Ognuno con uno scopo diverso, con un intendimento addirittura opposto, mosso da un ragionamento che non coincide necessariamente con quello degli altri. Ognuno, però, unito, per una volta tanto, dalla volontà di raggiungere il medesimo traguardo: il voto anticipato.

A quella meta guardano ormai tutti per mettere in sicurezza il Partito democratico, per evitare un'ennesima débâcle del centrosinistra: Massimo D'Alema, Matteo Renzi, Pier Luigi Bersani e il segretario Guglielmo Epifani che, ieri, intervistato da Giovanni Minoli, è stato nettissimo: «Il nostro elettorato ci chiede l'ultima azione di servizio per il Paese e poi il voto». Sì, persino lui che fino all'impossibile ha tentato la mediazione con il governo ha capito che non ci si può spingere oltre un certo punto perché un metro più in là c'è il baratro per il Pd e la riedizione del corollario di sconfitte che hanno costellato la strada del partito, tra una mezza vittoria e l'altra.

È chiaro che non la pensino così i «Democrat» che sono al governo, e cioè Enrico Letta e Dario Franceschini, nonché i loro sostenitori, ma è difficile trovare crepe nel partito, dove ormai (e questo è un inedito assoluto) Matteo Renzi e Guglielmo Epifani si consultano quasi ogni giorno sulla linea da prendere e sulle cose da dire.

Sostenere che il Pd è unito sarebbe eccessivo perché poi ci si divide sulla data delle elezioni. I bersaniani (come i berlusconiani) le vorrebbero a dicembre per impedire a Renzi di fare prima la scalata alla segreteria e poi, una volta impadronitosi del partito, la corsa alla premiership. Loro preferirebbero farlo gareggiare per delle primarie plebiscitarie (alla Prodi, per intendersi) con palazzo Chigi in palio, in cui sarebbe costretto a scendere a patti con i maggiorenti del Pd, rinviando la partita per la segreteria a un secondo tempo. I sostenitori del sindaco, invece, preferiscono la primavera, dopo la conquista del partito. Ma comunque sempre di voto anticipato si parla.

Già, i tempi sono cambiati e il Pd non vuole morire sotto le macerie del berlusconismo. Il che significa che non ritiene credibile la possibilità di rimettere in piedi un esecutivo di lunga durata con il Cavaliere dopo quello che è successo, neanche con un Cavaliere imprigionato dai suoi, né immagina che sia pensabile andare avanti con un governicchio raccogliticcio.

Da Firenze, Renzi, che potrebbe essere il vincitore o la vittima della partita che si sta giocando a Roma, tace ufficialmente sulle cose della politica nazionale: «Berlusconi sta cannoneggiando il governo, ma se parlassi ci sarebbe subito chi direbbe che lo sto mettendo in crisi io», scherza (ma mica tanto) con i suoi. In realtà, però, il sindaco ha orecchie e occhi rivolti a Roma.

E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che, da quando il Cavaliere ha aperto le danze, dal Pd guardano a lui come il futuribile candidato premier di una coalizione di centrosinistra vincente e quindi lo chiamano e gli chiedono consigli. Quindi non è che non parli, ma si affida alla riservatezza dei suoi interlocutori: non vuole bruciarsi in questa fase delicata in cui tutti i protagonisti sembrano sempre sopra le righe.

Perciò il sindaco di Firenze tranquillizza i suoi con queste parole: «Per ora aspettiamo e vediamo se Letta e Napolitano riescono a mandare in porto l'operazione politica che hanno in mente». È un'operazione delicata e non c'è bisogno di aggiungere confusione a confusione, a quello ci pensa già il centrodestra. Su alcuni punti, però, il «Renzi- pensiero» è netto: «Deve essere chiaro che il Pd non può accettare un accordo di Palazzo, un governo fatto da una maggioranza di Scilipoti: sarebbe una rovina non solo per noi, ma anche e soprattutto per il Paese».

Renzi, come gli altri dirigenti del Pd, non tifa per una crisi al buio, per elezioni senza sbocchi, vuole che venga varata la legge di stabilità, si rende conto che una riforma elettorale ci vorrà. Insomma un governo di servizio e di scopo per traghettare il Paese di qui a marzo potrebbe essere inevitabile, qualsiasi sia l'esito della crisi in atto, e potrebbe anche essere che quel governo si farà con un pezzo di scissionisti del centrodestra.

Ma una cosa a quel punto dovrà essere ben chiara, come spiega il sindaco di Firenze ai fedelissimi che gli chiedono lumi: «Si dovrà andare avanti invertendo la marcia che abbiamo innestato sinora. Cioè, basta con i compromessi che premiano solo gli altri e puniscono il Partito democratico. Sappiamo che un governo stabile è una condizione necessaria perché il Paese possa crescere, ma non è una condizione sufficiente da sola: ci vogliono riforme radicali, e quelle riforme dobbiamo imporle noi, con coraggio, senza timore di cambiare equilibri consolidati».

Dunque, anche se quella data il sindaco non la pronuncerà mai ufficialmente, è la seconda domenica di marzo l'orizzonte che si è dato. Un orizzonte che fino a poco tempo fa era solo suo, ma che ormai sta trovando nuovi sostenitori nel Partito democratico in cerca di scrollarsi di dosso il giogo delle larghe intese.

 

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