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PANSA: COSà «REPUBBLICA» MI FECE LA GUERRA
Uscirà il prossimo 13 febbraio La Repubblica di Barbapapà . Storia irriverente di un partito invisibile (Rizzoli, pp. 324, euro 19), il nuovo libro di Giampaolo Pansa. Il grande giornalista, oggi firma di Libero, racconta i suoi anni passati nel «Gruppone», cioè il gruppo Repubblica-Espresso, e tutti i personaggi che ha conosciuto in quel periodo.
A cominciare da Eugenio Scalfari, ovvero Barbapapà . Egli, soprannominato «Il Costruttore», è il componente principale della «Triade» che ha fondato l'impero del giornalismo di sinistra. Gli altri due sono «Il Compratore », Carlo De Benedetti, e «Il Continuatore», cioè l'attuale direttore Ezio Mauro. Nel brano che anticipiamo oggi, Pansa racconta le reazioni suscitate dall'uscita e dal successo de Il sangue dei vinti.
Giampaolo Pansa per "Libero"
Nel frattempo Il sangue dei vinti continuava a stare nella pattuglia di punta dei bestseller. Le vendite crescevano di settimana in settimana. Nel febbraio 2004, quattro mesi dopo l'uscita, avevano superato le 300 mila copie. Ma insieme crescevano gli avversari del mio libraccio. E tra loro trovavo sempre qualcuno di "Repubblica". Uno dei più puntigliosi era Mario Pirani, classe 1925, un tempo giornalista dell'"Unità ", uscito dal Partito comunista due anni dopo l'intervento sovietico in Ungheria.
Era stato tra i fondatori di piazza Indipendenza e se ne era andato per dirigere una nuova versione dell'"Europeo", settimanale di Rizzoli. In quell'azzardo aveva toppato e Scalfari se l'era ripreso con sé. Pirani era uno dei tanti che non potevano soffrire Il sangue dei vinti. E il 7 novembre 2003, ripresentò su "Repubblica" un suo lungo editoriale apparso nel settembre 1990, tredici anni addietro. Con lo scopo di dimostrare che il lavoro del Pansa proponeva storie vecchie, già indagate e tutte conosciute.
E dunque era cartaccia inutile, da lasciare sugli scaffali delle librerie. Ezio Mauro, un giacobino di tre cotte, per lisciare il pelo ai suoi lettori rossi, decise di far partire l'articolo dalla prima pagina e pubblicare il resto nel paginone culturale. La titolazione diceva già tutto della vecchia minestra di Pirani: "A proposito del libro di Pansa. Molti hanno discusso Il sangue dei vinti come se le vendette partigiane fossero un assoluto inedito. Quando si perde la memoria". Era davvero incavolato il Pirani.
Se la prese con me accusandomi di aver raccontato da furbetto storie che tutti conoscevano. Non risparmiò neppure chi aveva accolto con favore il mio libro. A cominciare da Ernesto Galli della Loggia che si era esposto sul "Corriere della Sera" con un articolo a mio favore. Chiesi a Mauro di replicare a Pirani su "Repubblica". Confesso che mi aspettavo un rifiuto oppure una risposta dilatoria, del tipo: «Vedremo, ci penserò...». Invece Mauro disse subito sì: «Scrivi quel che ti pare e quando sei pronto mandami il tuo pezzo». Il consenso mi sorprese, obbligandomi a riflettere. Mi dissi: «Topolino è un direttore che sa il fatto suo. A differenza di tante delle star che scrivono per lui, ha capito che la polemica paga sempre. E aiuta un giornale a vendere».
La mia risposta a Pirani apparve il 13 novembre. Era molto ampia e confutava le tante critiche, anche molto accese, rivolte al mio lavoro revisionista. Qui ricorderò soltanto uno degli argomenti che opponevo all'articolo di Mario. Era il più difficile da contestare. Se davvero Il sangue dei vinti fosse stato un piatto riscaldato che narrava storie conosciute da anni, non avrebbe mai potuto incontrare un così forte successo di vendite. Il mercato, di cui tanto parlavamo con entusiasmo, si sarebbe dimostrato ben più severo.
Tuttavia, esisteva una realtà che non avrei dovuto ignorare. Dentro la redazione di "Repubblica", quasi tutta di sinistra, l'indice di consenso per me stava calando molto in fretta. Quanti dei giornalisti di Mauro avevano letto il mio libro? Non sono proprio in grado di dirlo. Ma di solito nelle redazioni i libri non risultano di uso comune. Si preferisce fiutare l'aria che tira e regolarsi di conseguenza. Qualche difensore però ce l'avevo, anche dentro il Gruppone. Per esempio, Edmondo Berselli che sull'"Espresso" descrisse così la mia «prova di revisionismo praticata da sinistra»: «Il risultato è uno choc angoscioso per il lettore contemporaneo. à uno sguardo sull'orrore, con la coscienza che quell'orrore è nostro, della nostra parte, di coloro che hanno riconquistato la libertà , ripristinato la democrazia e fondato la repubblica».
Mi difese anche Miriam Mafai. Ma a lei andò peggio che a Berselli perché si trovò alle prese con il più accanito dei miei detrattori: Sandro Curzi, direttore di "Liberazione", il quotidiano di Rifondazione comunista. E allora accadde qualcosa che vale la pena di ricordare.
Alla vigilia dell'uscita del Sangue dei vinti, Miriam venne interpellata da un'agenzia di notizie, l'Adnkronos, che le chiese cosa pensasse di quel libro che stava per suscitare un vespaio di polemiche. Lei rispose: «Se i fatti che racconta sono accertati, e conoscendo Giampaolo Pansa non ne dubito, ritengo sia giusto portarli alla luce. Che nell'immediato dopoguerra ci fosse stata questa sorta di giustizia feroce, era emerso più volte anche se nessuno aveva indagato sino in fondo. Se ora lo ha fatto un uomo come Pansa, ben venga, non ritengo che sia da condannare».
La difesa di Miriam non piacque per niente a una lettrice di "Liberazione", Laura Ferrazzi. La signora, dichiarandosi «da sempre iscritta al partito di Togliatti che oggi si chiama Ds», mandò a Curzi una lettera, subito pubblicata, che strillava, con orrore: «Eppure Mafai è iscritta al mio stesso partito ed è stata compagna di Giancarlo Pajetta!». Curzi merita di essere rammentato in questo libro dedicato a "Repubblica" perché mise in pista contro di me una delle star del giornale di Scalfari e di Mauro: Bocca. Anche Giorgio aveva esternato sull'Adnkronos, sparando bordate contro di me per un testo non ancora uscito e che dunque non poteva conoscere.
Curzi lesse le parole di Bocca a quell'agenzia e incaricò subito uno dei suoi redattori, Beppe Lopez, di intervistarlo. Lopez era un ex di "Repubblica". Nel 2003 aveva 56 anni ed era stato nella squadra arruolata da Scalfari per fondare il quotidiano. Si occupava di politica interna ed era scivolato su un brutto errore. Ci aveva consegnato un'intervista al segretario socialdemocratico, Pietro Longo, che in realtà non aveva mai fatto. La pubblicammo e successe quello che era facile immaginare. Sul Sangue dei vinti Lopez andò a intervistare per davvero Bocca.
Ne uscì una requisitoria allucinata, dove Giorgio mi sparava addosso ad alzo zero. Sostenendo persino che avevo scritto il libraccio nella speranza di diventare il direttore del "Corriere della Sera". Il compagno Sandro si fregò le mani. Era sempre stato comunista e aveva lavorato alla sezione italiana di Radio Praga. Stampò l'intervista di Bocca con un grande titolo che diceva: Libro vergognoso di un voltagabbana. Curzi definiva il mio lavoro «un romanzo» che metteva sullo stesso piano «i nazifascisti e i partigiani con le forze democratiche».
Giorgio e io eravamo condannati a scontrarci. Era già accaduto su "Repubblica" a proposito del terrorismo rosso. Ma Ezio Mauro, così immagino, gli proibì di insultarmi, in modo diretto, sul giornale che dirigeva. Del resto, teneva in serbo per me una sorpresa che mi comunicò proprio nell'autunno del 2003. Quando uscì la mia risposta a Pirani, dissi a me stesso: «Caro Giampaolo, hai scritto di nuovo sul tuo vecchio giornale. Ma sarà un evento senza seguito perché non farai altri pezzi per la "Repubblica" di Ezio».
Mi sbagliavo perché Mauro mi sorprese con una mossa del tutto imprevista: mi propose di scrivere degli articoli per "Repubblica". Era la metà del novembre 2003 e mi trovavo nel pieno della battaglia polemica sul Sangue dei vinti. Le sinistre non potevano soffrirmi. Mi ingiuriavano, considerandomi un nemico. Il quotidiano di Curzi mi stava alle calcagna quasi tutti i giorni. Pubblicava le lettere contro di me che sosteneva di ricevere a ripetizione. Lì per lì mi ricordai delle lettere che nel 1983 invocavano il boicottaggio di "Repubblica".
Allora era Macaluso a stamparle sull'"Unità ". Pensai: deve essere un'abitudine di chi dirige un giornale comunista e venti anni dopo non è cambiata. Nessuno di quanti scrivevano a Curzi levandomi la pelle aveva letto Il sangue dei vinti. Per di più tutti giuravano che non l'avrebbero mai sfogliato. A volte Curzi, non soddisfatto dalle accuse che mi scagliavano i suoi lettori, si metteva al computer e mi sistemava per le feste.
Il 17 ottobre 2003 scrisse: «In tema di revisionismo storico credevo che avessimo raggiunto il fondo con la cinica operazione editoriale di Pansa, libro vergognoso di un voltagabbana». Ma purtroppo non era così: «Infatti non passa giorno che qualche fascista sdoganato o qualche ex comunista passato a Berlusconi non si riempia la bocca con i gulag e le foibe». Quando era stanco di attaccarmi, Curzi passava la palla a Lopez, il curatore della rubrica Giornali & Tv. Lui mi prendeva a schiaffi di continuo.
Entrambi non si rendevano conto che "Liberazione" stava diventando lo sponsor più efficace del mio libro. Tanto che un giornalista del "Corriere della Sera" mi disse: «Sai che cosa si mormora nelle redazioni? Che Curzi si sia messo d'accordo con te: lui ti fa pubblicità e tu gli dai argomenti per far vedere ai suoi compagni che è rimasto l'unico vero comunista in circolazione».
Ma adesso ritornava in ballo "Repubblica". Il giorno che Mauro mi presentò la sua proposta, dissi subito sì. Non mi chiesi il motivo di quell'offerta e lui si comportò da cuneese scabro, di poche parole: si dichiarò contento della mia risposta e non aggiunse altro. In seguito prevalse in me una dannata abitudine che avevo sin da ragazzo. Mi domandavo sempre perché accadesse un certo fatto. E finché non trovavo una risposta, non mi davo pace. (...). Sul motivo che aveva spinto Ezio a farmi tornare a scrivere per "Repubblica" mi fabbricai due teorie.
La prima aveva a che fare con il mercato. Il sangue dei vinti era sempre in testa a tutte le classifiche, spesso con la mia fotografia (...). Dunque perché non utilizzare una firma come la mia? Per di più, io stavo già in casa, come condirettore dell'"Espresso". Molti urlavano «Abbasso Pansa»? Certo, ma altrettanti gridavano «Viva Pansa!». Era da sciocchi tenermi lontano da "Repubblica", un giornale dove avevo lavorato per quasi quattordici anni. La seconda teoria sosteneva che a suggerire di farmi ritornare a scrivere su "Repubblica" fosse stato l'amministratore delegato del Gruppo Espresso, Marco Benedetto. (...).
Benedetto non era soltanto un mastino, bensì un manager molto accorto, un capo azienda insuperabile, la roccia del gruppo. Aveva ben chiara in mente una verità che provo a riassumere così. Se un giornale è monocorde e canta sempre una sola canzone senza cambiarla mai o accompagnarla a un motivo diverso, non può avere una gran fortuna. Le forti tirature si reggono su un complesso di lettori molto diversificato.
Un direttore non deve pensare soltanto alla maggioranza dei suoi clienti, è bene che si occupi anche delle minoranze. Comunque sia andata, dopo la risposta a Pirani sul Sangue dei vinti, ripresi a scrivere per "Repubblica". Un collega che aveva lavorato con me quando ero vicedirettore di Scalfari, mi disse: «Era paradossale che un giornale liberal come il nostro, sia pure affetto da strabismo a favore della sinistra, tenesse fuori dalla porta uno come te. Qui dentro non tutti ne saranno contenti, ma pazienza». (...).
Sino alla fine dell'anno scrissi un pezzo al mese che Mauro presentò al meglio, con l'inizio in prima pagina. In tutto risultarono tredici. Quando alla fine del 2004 decisi di andare in pensione perché stavo per toccare il limite dei settant'anni, Benedetto mi offrì un contratto annuale cosiddetto di gruppo. Prevedeva che scrivessi ogni settimana il Bestiario per "l'Espresso" e due pezzi al mese per "Repubblica". Ma nel 2005 i miei articoli sul quotidiano si ridussero in modo drastico.
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