DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Estratto dell’articolo di Giordano Stabile per “La Stampa”
JOE BIDEN - BENJAMIN NETANYAHU
Benjamin Netanyahu ha ritrovato subito i suoi spazi di manovra in un gioco che punta soltanto a prendere tempo, se possibile fino al 5 novembre. Il blitz diplomatico di Joe Biden si è scontrato con il solito muro di gomma del premier israeliano. Il sì di Hamas era scontato, perché nella proposta americana c'è la possibilità di una tregua di lungo periodo, l'unica cosa che interessa davvero al gruppo palestinese. Ma è anche l'unica cosa che il governo israeliano non può concedere.
"King Bibi" è stato attento a non dire un "no" diretto. Poteva essere visto come una mancanza di rispetto nei confronti dell'alleato più importante, indispensabile, dello Stato ebraico. Netanyahu si è rivolto alla Knesset per far trapelare le sue vere intenzioni. E ha parlato di un «gap» tra la versione israeliana dell'accordo e quella americana, definita «incompleta». Un modo per rilanciare la palla nel campo avversario.
BENJAMIN NETANYAHU DONALD TRUMP
Era già successo un mese fa, quando Hamas aveva sottoscritto una proposta mediata da Egitto e Qatar e sottoposta prima a Israele. Che però aveva contestato alcune "modifiche".
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A quel punto l'irritazione della Casa Bianca era esplosa al punto di annunciare la sospensione delle forniture di munizioni, in particolare le bombe per i jet che in questi otto mesi hanno martellato la Striscia.
benny gantz joe biden yair lapid
Una sospensione durata solo pochi giorni. Nel dibattito si sono inseriti i repubblicani. Non tanto i trumpiani, che comunque sono per un sostegno senza se e senza ma per Israele. Ma anche i vecchi neocon, rappresentati in questo caso da Nikki Haley, possibile futura vicepresidente se il tycoon dovesse vincere le elezioni fra cinque mesi.
La scritta "Finiteli" sui proiettili di artiglieria americani da 155 millimetri, destinati a colpire Gaza, riassume bene il loro programma. E cioè, se gli elettori "centristi" tra Trump e Biden la pensano così, sono tutti punti a favore di Netanyahu e della sua linea oltranzista.
donald trump e benjamin netanyahu
«Avanti finché non avremo distrutto Hamas», ha ripetuto ieri. Gli altri due punti prevedono il rilascio di tutti gli ostaggi, ma non è specificato se vivi o morti, e far sì che Gaza «non rappresenti mai più un minaccia». Sul terreno questi intenti si declinano con una fascia cuscinetto attorno alla Striscia, larga circa un chilometro e già in parte realizzata, e due grandi assi di comunicazione controllati dall'esercito, uno da Est a Ovest fino al mare, già quasi completato, e uno da Nord a Sud, fino al confine con l'Egitto. Manca solo l'ultimo tratto, attraverso l'area di Rafah.
Il muro di gomma diplomatico serve a portare a termine i progetti concreti, che però hanno alcune lacune, sottolineate da Benny Gantz, un militare capace di infliggere una pesante sconfitta ai militanti palestinesi nel 2014. I dubbi del "generale di ferro" riguardano il controllo precario del territorio. Si sono create delle enclave più piccole, nei campi di Jabalyia, in quartieri di Gaza City e di Khan Younis, in teoria già "conquistati", dove i battaglioni di Hamas e della Jihad islamica si sono raggruppati e tendono agguati con cecchini, bombe improvvisate e razzi anticarro.
Netanyahu pensa che questa attività possa essere gestita alla lunga come si fa in Cisgiordania, a Jenin, Tulkarem, con raid periodici di terra e attacchi aerei. Per Gantz lasciare sacche di resistenza attive equivale a una mezza sconfitta. E qui si inserisce il nodo diplomatico.
joe biden bibi netanyahu in israele
Concedere ad Hamas un cessate il fuoco di mesi equivale invece, dal loro punto di vista, a una "vittoria". Che rivendicheranno ad altissimo volume, con nuove capacità comunicative sui social, preoccupanti quanto l'accresciuto uso di fucili ad alta precisione e razzi fatti in casa.
Netanyahu ha bisogno di tempo. Può guadagnarlo con Biden, più a fatica con Gantz. Ma è su un altro fronte che fatica, e rischia. E cioè la percezione pubblica mondiale del conflitto. Non ci sono solo le proteste nelle università occidentali. C'è un movimento di simpatia per i palestinesi che va dall'America del Sud all'Asia orientale, incontenibile e poco influenzabile dai media statunitensi o europei.
Lo stesso Volodymyr Zelensky è stato costretto a rivolgersi a quel mondo, per evitare eccessive diserzioni alla Conferenza di pace in Svizzera del 15-16 giugno. E ha accostato la Palestina all'Ucraina, due Paesi sotto occupazione. Un accostamento mai fatto prima e dettato dal nuovo ruolo mondiale della Cina.
Pechino è ormai il primo partner commerciale di oltre 120 Stati, la maggior parte dei quali apertamente contrari agli equilibri geopolitici nati alla fine della Seconda guerra mondiale. In questo contesto l'ingresso dell'Egitto nei Brics, la sigla che guida il Global South, ha avuto un impatto diretto anche sul conflitto a Gaza.
La postura più decisa su Rafah, e sul corridoio Filadelfia passato sotto controllo israeliano tra le proteste del Cairo, nascono anche da una "garanzia" cinese, soprattutto di tipo economico. Di fronte agli equilibri globali che cambiano a questa velocità anche il muro di gomma mostra le sue crepe.
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