DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Tommaso Labate per il Corriere della Sera
Massimo D' Alema aspetta che glielo chiedano «i pugliesi», quindi in lista con Mdp ci sarà. Paolo Gentiloni e Dario Franceschini, ripensamenti a parte, otterranno una deroga per superare il limite delle tre legislature e saranno in corsa col Pd. Silvio Berlusconi, invece, aspetta il verdetto della Corte Europea dei diritti dell' uomo, consapevole che le possibilità non sono tante.
LA STRETTA DI MANO TRA ENRICO LETTA E MATTEO RENZI
Ma per molti big del presente e del passato che aspettano senza troppa impazienza l' inizio della prossima legislatura, ce ne sono altrettanti che si chiamano fuori dalla mischia. Le mosse di alcuni di questi, negli ultimi giorni, sono finite sotto il radar di Matteo Renzi. Convinto, come sussurrano i suoi, «che molti dei nostri faranno a gara per evitare di schierarsi alle prossime elezioni sapendo che, in caso di impasse post-elettorale, saranno i primi a cui verrà chiesto di dare una mano per il governo...».
E così, l' incubo dei renziani prende forma. Di pari passo con lo schema delle «riserve della Repubblica» chiamate a sbrogliare, in caso di Grande Coalizione, il rebus del governo che verrà. In cima alla lista, qualcuno ha messo il nome di Enrico Letta. L' ex premier è impegnato nell' Istituto di studi politici di Parigi ma, negli ultimi mesi, è stato presente nel dibattito italiano.
Ha annunciato il suo Sì al referendum, poi ha sostenuto Andrea Orlando al congresso del Pd e, nonostante la sintonia con Bersani, s' è tenuto alla larga dal cantiere neo-ulivista di Mpd. «Letta fa il professore universitario? Temporaneamente», ha spiegato giorni fa Romano Prodi, un altro papabile - è quello che sospettano al Nazareno - a un ruolo di primattore (quantomeno nel dibattito) nel caso in cui dalla matassa post-elettorale venga fuori una «soluzione di centrosinistra».
Da quando il cantiere della legge elettorale è rimasto abbandonato, il ragionamento che passa di telefonata in telefonata suona più o meno così: se nessuno vince le elezioni, a quel punto «per il governo serviranno persone il più possibile distanti dalla sigle di partito». È un' analisi condivisa anche da Silvio Berlusconi, memore della fallimentare scelta di designare del 2013 dei ministri forzisti che hanno poi finito per abbandonarlo (da Alfano a Lorenzin, passando per Lupi).
E così, il variopinto ed eterogeneo partito dei «non candidati» inizia a prendere forma. L' altra settimana s' è chiamato fuori dalle liste Giuliano Pisapia, pubblicamente: «A candidarmi non ci penso proprio». Stessa sorte che ha scelto per se stesso anche Carlo Calenda, che pure Renzi continua a considerare un avversario. Non starà più in Parlamento neanche Pier Ferdinando Casini, stranamente lontano da tutti i cantieri del Centro, che avrebbe già trattato col Pd le candidature dei suoi fedelissimi Galletti e D' Alia (e che ovviamente, in caso di governissimo, giocherebbe le sue fiches sulla Farnesina, il sogno di una vita).
Un caso a parte quello del professor Giulio Tremonti, presidente dell' Aspen institute, nel cui comitato esecutivo figurano anche Letta e Prodi. L' ex ministro si trova nell' incredibile condizione di essere apprezzato, oggi, da sinistra a destra. Piace a tutto quello che si muove alla sinistra del Pd per il modo in cui ha combattuto le riforme di Renzi. Piace alla destra (ma anche alla sinistra) sociale per la sua lettura della globalizzazione. E piace - a giudicare dai commenti sul suo post sul fiscal compact ospitato l' altro giorno dal blog di Beppe Grillo - anche a molti militanti M5S. Per questo, a Palazzo, tutti sono tornati a osservarne le mosse con grande attenzione.
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