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Federico Fubini per il “Corriere della Sera”
Da quando gli inglesi hanno votato per la Brexit l' indice azionario delle banche dell' area euro ha perso il 23%.
Quello delle banche italiane il 30%, Deutsche Bank il 27%. Stranamente, i titoli delle banche quotate a Londra hanno sofferto di meno: la loro scivolata non è neppure della metà di quella del primo istituto tedesco. Dall' inizio dell' anno, quando sono entrate in vigore le regole che penalizzano i salvataggi pubblici, le divergenze sono state persino maggiori. Gli istituti dell' area euro in media hanno dimezzato il loro valore, quelli quotate a Londra hanno perso il 20%, quelli a New York il 13%.
Oggi non è facile in nessuna parte del mondo gestire un' azienda il cui mestiere è prestare denaro. L' onda lunga della deflazione deprime i tassi d' interesse a lungo termine grazie ai quali le banche realizzavano i loro guadagni. L' innovazione digitale rende obsolete molte delle loro costosissime strutture, e corre più in fretta di quanto non riescano a cambiare imprese il cui simbolo resta pur sempre un tempio neoclassico in pietra.
C' è però una specificità della zona euro e non solo dell' Italia, alla cui crisi del credito l' Economist dedica oggi la copertina. Il Fondo monetario internazionale ricorda che a quasi dieci anni dall' avvio della Grande recessione, i crediti bancari a rischio di default nell' Area valgono ancora quasi mille miliardi di euro (per quasi un quarto vi contribuisce l' Italia).
In questo l' Europa ha preso una strada diversa dagli Stati Uniti subito dopo il crash di Lehman nel 2008: l' amministrazione americana ha obbligato le banche ad accettare denaro pubblico, quindi a ristrutturarsi in profondità, e oggi i loro crediti cattivi rappresentano una quota fisiologica; qui alcuni Paesi hanno dovuto affrontare costosi salvataggi pubblici (Germania, Olanda, Spagna, Irlanda), altri come l' Italia hanno commesso l' errore storico di procrastinare illudendosi che anche con banche zoppe la ripresa arrivasse e risolvesse tutto.
L' intera classe dirigente italiana ha preferito non scoperchiare i troppi verminai del credito, specie, ma non solo, in provincia. Nel complesso però anche la strategia europea non sta funzionando. Quel materiale esplosivo che sono i crediti in default ha appena smesso di crescere nell' area euro, mentre in America è in calo dal 2009.
Neanche la profonda svolta istituzionale avvenuta nell' unione monetaria negli ultimi tempi sembra aiutare granché. Il cuore della vigilanza si è spostato a Francoforte, nella Banca centrale europea. A Bruxelles è stata creato un organismo, il Consiglio unico di risoluzione, che può decidere se una banca è in dissesto e staccarle la spina. E le norme in vigore da quest' anno (approvate a Bruxelles sia dal governo di Enrico Letta che da quello di Matteo Renzi) rendono molto più difficile qualunque salvataggio pubblico: prima che un nuovo euro di aiuti possa entrare in una banca, vanno sforbiciati gli azionisti, gli obbligazionisti e (se non basta) anche i depositi oltre i 100 mila euro.
Questa struttura ha dei vantaggi. Ha fatto emergere la deriva della Popolare Vicenza o di Veneto Banca e ha brutalmente obbligato quegli istituti, oltre al Banco Popolare, a rafforzarsi sul mercato.
Eppure resta uno squilibrio evidente che lascia l' intera architettura dell' euro senza certe mura portanti: tutti i poteri decisionali sono stati trasferiti fuori dagli Stati e al centro del sistema; ma quando Francoforte detta tempi pressanti per rafforzare le banche oppure mandarle in fallimento, e il mercato si rifiuta di fornire capitali freschi, gli Stati hanno le mani legate. Intanto, proprio perché così si crea una paralisi e dunque le banche restano fragili, la Germania blocca qualunque sistema comune di sostegno europeo nel timore di dover pagare per i problemi degli altri.
Questa Unione bancaria è un' architettura impossibile: una sorta di opera di Escher. Gli investitori hanno risposto falcidiando il valore delle banche europee da quando le nuove norme sono in vigore, così rendendo ancora più ardue nuove ricapitalizzazioni sul mercato e quindi bloccando lo smaltimento dei crediti in default. Oggi Intesa Sanpaolo vale in Borsa appena il 3,8% di tutti gli attivi nel suo bilancio, Bnp Paribas il 2,4%, Unicredit l' 1,2%. Deutsche Bank 0,8%, Mps 0,4%.
Attraverso questi valori stracciati gli investitori mettono in dubbio la logica istituzionale della struttura dell' euro, proprio come facevano con i titoli di Stato quattro estati fa. Non è un caso se l' Economis t scrive che seguire alle lettera queste regole bancarie, «può portare alla fine della moneta unica»: La loro logica in effetti non è sempre facile da comprendere. In caso di nuovi aiuti di Stato, le nuove norme bancarie impongono di bruciare anche titoli emessi e comprati molti anni prima che di quelle regole si iniziasse anche solo a parlare: ne sanno qualcosa i creditori di Banca Etruria.
Contemporaneamente, le stesse norme Ue permettono che tutti gli aiuti di Stato avviati in precedenza continuino anche ora senza alcuna penalità: così la Germania riesce a mantenere tranquillamente circa 440 miliardi di garanzie pubbliche sull' intero sistema bancario (dati Eurostat), mentre un solo euro di nuove garanzie su Montepaschi implicherebbe perdite per decine di miliardi sui creditori e i depositanti.
Anche la messa in comune dei rischi bancari in Europa, sulla quale Berlino oggi frena, non è esattamente una novità. Alla vigilia della crisi le banche tedesche erano esposte su Spagna, Grecia e Irlanda per 320 miliardi di dollari, quelle francesi per 227 (dati Bri).
Entrambe ne sono uscite senza perdere un solo cent, perché tutti governi dell' area euro si sono tassati aumentando il proprio debito pubblico di quasi il 4% per salvare i tre Paesi e, en passante, le loro banche creditrici in Francia e Germania. Ma questa è una vicenda rimossa dai leader di quest' Unione bancaria che non sembra aver colto la lezione della Brexit: per salvarsi l' Europa ha bisogno di farsi capire da tutti.
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