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DAGOREPORT - GIORGIA MELONI SOGNA IL FILOTTO ELETTORALE PORTANDO IL PAESE A ELEZIONI ANTICIPATE?…
Elisa Calessi per "Libero Quotidiano"
«Se vogliono andare in fondo, facciano. Vuol dire che si va a votare». Nei contatti via sms tra Oltreoceano, dove Matteo Renzi ancora si trova, e Roma, ha fatto capolino anche questo avvertimento. E cioè: se la sinistra del Pd non viene a miti consigli sull’articolo 18, accettando le decisioni della maggioranza, se insiste fino a votare contro la legge delega, sappia che la conseguenza sono le elezioni anticipate.
Uno scenario che probabilmente non si verificherà, ma che viene evocato per ricordare alla minoranza chi ha il coltello dalla parte del manico. L’unico, infatti, che potrebbe avere un vantaggio ad andare al voto nel 2015 è Renzi: avrebbe un nuovo mandato e gruppi più coesi per affrontare un periodo che si annuncia difficilissimo. Non sarebbe conveniente, invece, per i suoi avversari interni, che rischierebbero di venir decimati. Insomma, il braccio di ferro sul Jobs Act continua.
Nonostante gran parte della minoranza, in particolare Area riformista, cerchi disperatamente un accordo. Sia Roberto Speranza, sia Cesare Damiano si sono sentiti più volte con Filippo Taddei e il ministro Poletti. Sul piano tecnico, le ipotesi ci sono.
Gianni Cuperlo si è detto convinto che «si possa trovare una soluzione di buon senso». Per esempio«l’allungamento del periodo di prova». Si parla di farlo durare fino a sei o addirittura dieci anni, dopo i quali prevedere la possibilità del reintegro. Oppure di legarla all’età dei lavoratori. «Se un segretario del partito vuole trovare una sintesi», ha detto Pier Luigi Bersani, «non solo è possibile ma agevole: basta volerlo».
L’unico indisponibile ad accordi è Pippo Civati che ieri in Transatlantico commentava così: «Sì, potremmo prevedere il reintegro per chi va in pensione». Ma Renzi è deciso a tirare dritto e ai suoi dice: «Sul reintegro nessuna via di mezzo. O si tiene o si toglie». La soluzione tecnica, insomma, ci sarebbe. Il problema è che Renzi non è interessato. In direzione ha una maggioranza schiacciante.
Perché dovrebbe rinunciare a una battaglia che gli guadagna voti oltre il Pd? «Io rispetto tutte le idee, compromesso non è una parola cattiva, ma in questo caso non è la strada. Questo non è il momento del compromesso ma del coraggio», ha detto ieri a Bloomberg tv. Il problema si porrà giovedì, quando la delega arriverà in Aula. I senatori pronti a non votarla, nonostante tutto, sarebbero dieci.
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