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Estratto dell'articolo di Paolo Mastrolilli per “la Repubblica”
La giornata chiave è il 3 ottobre del 2016, in piena campagna presidenziale tra Donald Trump e Hillary Clinton, quando a Roma si incontrano cinque personaggi da fare invidia alla sceneggiatura più spericolata della serie televisiva "The Diplomat". Di due conosciamo l’identità, sono l’analista supervisore dell’Fbi Brian Auten e l’ex capo del Desk Russia all’MI6 Chris Steele.
Gli altri vengono identificati solo come Special Agent-2, Acting Section Chief-1 e Handling Agent-1, ma sono pezzi grossi del Federal Bureau of Investigation. Sono nella capitale italiana per incontrare l’agente segreto britannico, autore del famoso dossier sulle relazioni pericolose fra Trump e Mosca, all’origine del "Russiagate". Vogliono offrirgli un milione di dollari, se riuscirà a provare le sue accuse contro il candidato repubblicano alla Casa Bianca.
Questa rivelazione scottante, contenuta nel rapporto di 316 pagine appena pubblicato dal procuratore John Durham, rimette l’Italia al crocevia dello scandalo che ha paralizzato per anni gli Stati Uniti.
Infatti nelle carte si scopre che Steele era gestito da un agente dell’ufficio di Roma dell’Fbi, allora guidato da Michael Gaeta. Così si spiega l’interesse di Trump ad investigare sul ruolo del nostro paese nel "Russiagate", e si riaprono gli interrogativi sulle decisioni prese dall’allora premier Conte.
Lo scandalo nasce a Roma, quando il professore della Link Campus University Joseph Mifsud incontra George Papadopoulos, consigliere del candidato repubblicano, e gli dice che i russi hanno le email di Hillary. Il 6 e 10 maggio 2016 Papadopoulos rivela la dritta a due diplomatici australiani, che la girano al governo Usa. Così ad agosto l’Fbi apre l’inchiesta "Crossfire Hurricane".
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Quando Trump diventa presidente, chiede al segretario alla Giustizia Barr di indagare sulle origini del "Russiagate", sospettando che fosse una trappola ordita da agenti infedeli dell’intelligence. Barr incarica Durham dell’inchiesta e i due chiedono all’ambasciata italiana a Washington di venire a Roma per incontrare i vertici dei nostri servizi.
Ora sappiamo che cercavano informazioni sugli agenti dell’Fbi che avevano gestito Steele dalla nostra capitale. Secondo il protocollo una simile domanda sarebbe dovuta passare dal ministero della Giustizia, ma Conte ordina al capo del Dis Gennaro Vecchione di ricevere Barr e Durham. Il primo incontro avviene il 15 agosto del 2019 nella sede dei servizi, con un’appendice al ristorante Casa Coppelle per la cena. Il 27 agosto, dal G7 di Biarritz, Trump pubblica il tweet con cui si augura che "Giuseppi" venga confermato premier.
Il 27 settembre Barr e Durham tornano a Roma per vedere i capi dei servizi e ricevere le informazioni. Gli italiani rispondono di non sapere nulla del "Russiagate", ma secondo una notizia del New York Times confermata dal segretario alla Giustizia, rivelano di aver sentito voci su potenziali reati commessi da Trump.
L’interpretazione più benevola del comportamento di Conte è che l’Italia aveva interesse a conservare un buon rapporto col presidente americano e perciò lo aveva accontentato. Così però aveva messo a rischio la sicurezza nazionale, costringendo i nostri servizi a passare a Barr potenziali informazioni compromettenti sui colleghi dell’Fbi, con cui poi dovevano lavorare ogni giorno per sventare attentati, catturare terroristi o arrestare mafiosi.
Visto lo scopo dell’inchiesta, non regge più la giustificazione di Conte secondo cui poteva aggirare il protocollo, perché si trattava di una questione di sicurezza.
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Infine resta da capire quali notizie di reato su Trump avevano passato i servizi italiani a Barr, e se il premier le conosceva. Considerando che Donald è da capo il favorito alla nomination repubblicana per la Casa Bianca, sono tutti interrogativi da chiarire, probabilmente anche con un nuovo intervento del Copasir.
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