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Stefano Folli per “La Repubblica”
Tra i suoi effetti, la riforma Cartabia ha quello di frantumare il cosiddetto asse Pd-5S. Quanto meno la sua versione più accreditata dalle cronache politiche, fondata su Giuseppe Conte "punto di riferimento del fronte progressista" (secondo una nota definizione).
Eletto segretario del Pd, Enrico Letta aveva ereditato questa relazione privilegiata e non ha fatto molto per modificarla. Ma l'alleanza per "contrastare le destre", messa a fuoco da Goffredo Bettini durante la gestione Zingaretti, non aveva mai dato buona prova di sé. Per restare ai temi della giustizia, il Pd aveva accettato e fatto sua la riforma Bonafede, una bandiera dei Cinque Stelle, e non era il solo pegno offerto a garanzia del patto politico.
giuseppe conte alle agora di bettini 2
A un certo punto era sembrato addirittura che si fosse andati oltre l'intesa di convenienza: l'asse si configurava quasi come una fusione, con Conte irrinunciabile punto di equilibrio del centrosinistra e il partito di Letta un passo indietro. Ancora pochi giorni fa, dopo l'esplosione della crisi interna ai 5S, il segretario del Pd si rammaricava che certi accordi raggiunti con l'ex premier in vista del rinnovo al Quirinale fossero vanificati.
Oggi lo scenario è del tutto mutato. Letta plaude alla riforma Cartabia e torna a presentare il Pd come il "partito di Draghi". Conte è su posizioni opposte: attacca la riforma del processo penale, lascia intravedere sconquassi in Parlamento (ma verificheremo alla prova dei fatti), si allinea allo stesso Bonafede, a Di Battista e al loro giornale di riferimento per promettere vita difficile al governo Draghi, di cui ci si augura la fine. Ed è curioso perché di recente l'ex premier aveva reso noto, nella sorpresa generale, d'esser stato uno dei primi fautori dell'avvento dell'ex presidente della Bce a Palazzo Chigi.
GOFFREDO BETTINI GIUSEPPE CONTE
In conclusione. Era già difficile mantenere il patto quando i 5S non erano lacerati e si supponeva che Conte, bene o male, li rappresentasse tutti in una linea di non ostilità verso l'esecutivo Draghi. Diventa improponibile dopo questa divaricazione, per cui il Pd è spinto a riconoscersi nelle politiche di Palazzo Chigi senza troppe riserve mentali, mentre Conte si avvia a interpretare una forma di opposizione ancora da definire.
Un'opposizione che rischia di essere confusa e populista, quindi poco adatta a un ex premier, a meno che non sia raccordata a un progetto politico convincente. Al momento si coglie soprattutto un tenace rancore verso l'"usurpatore". S' intende che il Pd non ha per ora una politica di ricambio. L'asse con i 5S era e resta il cardine di un sistema di alleanze elettorali messo in pratica ovunque è stato possibile.
mario draghi all accademia dei lincei
Dove il modello prevede il doppio turno, come per le comunali, si guarda logicamente all'intesa nei ballottaggi: vedi il caso di Gualtieri a Roma. Sulla carta il rapporto con i 5S, o quel che ne resta, può proseguire anche senza Conte. Ma è tutto da ricostruire e bisognerà attendere almeno l'esito del confronto interno tra i grillini.
La condizione indispensabile è ovviamente che non ci siano ambiguità verso il governo Draghi ed è precisamente il punto su cui non c'è chiarezza. Nel frattempo il presidente del Consiglio accentua l'impronta decisionista, come si è visto con le nomine ai vertici della Rai. Anche in questo caso le vecchie logiche partitiche sono state accantonate, lasciando forse intravedere un nuovo modo di intendere il servizio pubblico
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