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MATTEO RENZI A MILANO PER L EXPO FOTO LAPRESSE
Sandro Cappelletto per “la Stampa”
«L’Expo è la vetrina dell’Italia, la Scala è la vetrina di Milano. Noi orchestrali affermiamo l’intenzione di lavorare il prossimo 1° maggio, in occasione della recita della Turandot di Puccini programmata per l’inaugurazione dell’Expo 2015».
E’ la frase più netta della lettera aperta inviata dalla stragrande maggioranza dei professori d’orchestra del teatro milanese al sovrintendente Alexander Pereira e, per conoscenza, al sindaco Pisapia e al ministro Franceschini. Firmata già da tre mesi, appena le prime avvisaglie del problema erano apparse, assume ora un valore nuovo e più pesante.
I riflettori puntati
Il giorno successivo alle dichiarazioni del premier, che ha ritenuto «impossibile e inimmaginabile» una chiusura del teatro proprio la sera in cui tutti i riflettori si accenderanno su Milano, il clima alla Scala è arroventato.
Da una parte, l’orchestra e il coro che, quasi all’unanimità, ribadiscono la loro decisione di «esserci comunque, anche rinunciando o devolvendo in beneficenza la maggiorazione prevista per chi lavora in un giorno di riposo», come ricorda Gianluca Scandola, violinista. Dall’altra, una minoranza del personale tecnico, concentrato soprattutto nel reparto elettricisti, che ribadisce «il sacrosanto diritto di non lavorare il primo maggio, Expo o non Expo. Parlare di sciopero in questo caso è assurdo», conferma un dipendente scaligero che preferisce non esporsi. Una posizione non negoziabile: nessun datore di lavoro può obbligarti a timbrare il cartellino quel giorno.
Come uscirne? «Abbiamo bisogno di parlare con tranquillità in queste settimane, spero vinca il buon senso», ha detto ieri sera al Tg1 il sovrintendente Pereira». «Dialogando, per convincersi tutti che la questione va oltre l’occasione specifica: per il bene del nostro Paese e della musica che amiamo, quella sera il sipario della Scala deve alzarsi», dice Cristiano Chiarot, sovrintendente del Teatro La Fenice.
Anche Carlo Fuortes, sovrintendente dell’Opera di Roma, che mesi fa conobbe una situazione analoga - alcune prime parti dell’orchestra fecero saltare tre recite di Bohème e il teatro dovette rimborsare migliaia di biglietti venduti - ricorda «l’importanza di motivare il progetto specifico per il quale si chiede un impegno, continuando a lavorare per realizzarlo».
Nicola Sani, compositore appena nominato sovrintendente al Comunale di Bologna, è persuaso che «in ogni trattativa c’è qualcosa che si dà e qualcosa che si riceve. E il dialogo deve restare prioritario». Per Giuseppe Nastasi, della Fials «le alternative ci sono. Con coro e orchestra uno spettacolo si può organizzare».
Nessuno lo dice apertamente, ma tutti concordano sul fatto che l’entrata a gamba tesa di Renzi ha portato prepotentemente all’ordine del giorno la questione, irrigidendo però le posizioni.
La posta in gioco
La vera posta in gioco, però , non è lavorare o no il 1° maggio. Neppure il più ostinato sindacalista ignora il particolare rilievo di questa scadenza, nel gran spolvero di una serata tutta made in Italy: la Scala, la direzione di Riccardo Chailly, il nuovo finale scritto per l’incompiuto capolavoro di Puccini da Luciano Berio.
La posta in gioco è il nuovo contratto dei lavoratori della Scala che, dopo la raggiunta autonomia del teatro, potrà non tenere più conto del contratto collettivo nazionale e prevedere un trattamento diverso e migliore.
Una parte della Cgil, più vicina a Maurizio Landini, non vede favorevolmente questa soluzione, ritenuta discriminatoria per gli altri lavoratori dei teatri e che è riservata agli scaligeri e ai dipendenti dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, unica altra istituzione musicale italiana ad aver guadagnato l’autonomia.
Inoltre, pur condivisa da pochi lavoratori, c’è una motivazione politica, di contrarietà all’Expo degli appalti truccati e della corruzione. Ci sono tre mesi per sciogliere il nodo e tutte le carte del mazzo sono in tavola.
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