DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” - Estratti
«Chiama Salvatore Gallo». Nessuno ha mai usato il nomignolo Sasà, qui non si usa, non sta bene. Ma ancora pochi giorni fa, un attimo prima che l’inchiesta Echidna dei carabinieri macchiasse il blasone del Pd locale così carico di gloria e orgoglio passati, ai temerari colleghi di partito candidati alle elezioni europee nella circoscrizione Nord-occidentale che chiedevano lumi su come fare per raccogliere consensi, i parlamentari più importanti del centrosinistra torinese facevano quel nome.
(...)
Perché in molti, ex Ds, ex Margherita e giovani vestali del nuovo corso di Elly Schlein, hanno un debito con l’ottantatreenne Salvatore Gallo, calabrese di Oriolo. Primo impiego come barelliere all’ospedale di Orbassano, del quale diventerà dirigente amministrativo prima di passare tre giorni in prigione. Dalla sanità passa allora alle infrastrutture, diventando l’infaticabile titolare di quella che veniva chiamata la corrente autostradale del Pd.
«Tu sei amico mio» era la sua frase simbolo, ripetuta per decenni a manager, amministratori, soprattutto politici del suo partito, che oggi fingono di non ricordarsi di quell’uomo basso e calvo, dalle poche parole e dall’eterno sorriso, sempre fasciato in un doppio petto gessato. Sono ormai lontani i tempi in cui dai pullman aziendali della Sitaf, la società della lucrosa autostrada Torino-Bardonecchia, il suo feudo, faceva scendere truppe cammellate che votavano «come si deve» alle primarie democratiche.
Anche Gallo stava ormai diventando un ex di quel sistema Torino che lo ha sempre trattato con sussiego. Le intercettazioni dell’inchiesta lo definiscono come un ex potente ridotto a brigare per far spostare un cassonetto dell’immondizia sotto casa di un suo fedelissimo, senza per altro riuscirci.
Eppure, continuava a fare comodo a un partito avvolto dalla ragnatela delle lotte intestine e staccato dalla realtà.
Lui come Mauro Laus, l’altro esponente del mondo di sotto del centrosinistra torinese, capo della cooperativa Rear, di origini lucane, anche lui alle prese con vicissitudini giudiziarie. «I meridionali», così li chiamavano di nascosto i loro colleghi di partito, dimenticando che a Torino due terzi degli elettori del Pd vengono dal Sud.
Entrambi reduci della Margherita, alimentavano congressi locali, sostenevano candidati dal grande curriculum accademico o professionale del tutto a corto di preferenze, e ignari del modo in cui vanno cercate. Gli stessi che oggi dagli scranni del Parlamento invocano «un processo di riforma delle modalità di selezione della classe dirigente» oppure per interposto consigliere comunale invitano il partito a non cadere in spinte populiste «agitando la bandiera delle purezza».
Ma c’era una differenza importante. Il più giovane Laus stringeva accordi a geometria variabile. Gallo senior e i suoi figli erano organici alla corrente del più importante esponente di sempre del Pd torinese.
All’uomo considerato un padre nobile del partito.
«Scrivi Gallo e leggi soprattutto Piero Fassino» è la sintesi dell’ex senatore Stefano Esposito, uno dei pochi che cercò di combattere le pratiche clientelari del suo partito, prima di essere inghiottito da una odissea giudiziaria della quale ancora non vede la fine.
«Per debolezza, timore o comodità, invece di andare in mezzo alla gente con una proposta politica, a Torino si è spesso scelta la facile scorciatoia, che dopo il crollo alle elezioni del 2018 è poi diventata consuetudine. Fino all’apoteosi del partito delle tessere, che di recente ha estromesso dalle liste regionali Mauro Salizzoni, il chirurgo che cinque anni fa tenne a galla il Pd con il suo record di preferenze».
Eccolo, il convitato di pietra. O il patriarca nel corridoio. Che per quanto ormai lontano ed estraneo a certe dinamiche, tutti evocano chiedendo di non essere citati. Per rispetto dovuto, per timore reverenziale. Almeno una decina gli esponenti democratici consultati per questo articolo che hanno chiesto l’anonimato. Dopo che Sergio Chiamparino, forte di una rielezione da record, lo aveva messo alla porta, il cosiddetto clan Gallo rientrò in campo cinque anni dopo, quando Fassino si candidò a sindaco della sua città. Non ci ha quasi mai parlato direttamente, perché non è vero che gli estremi si devono toccare.
La delega a gestire Raffaele Gallo era di Giancarlo Quagliotti, vecchio quadro del Pci locale, anche lui ex dirigente di Sitaf, più volte citato nelle carte dell’inchiesta. Dove si trova traccia anche del netto rifiuto opposto dall’attuale sindaco di Torino Stefano Lo Russo al nome che gli propone Gallo per l’assessorato al Bilancio, gesto che forse segna davvero la fine di un’epoca. È quello di Gioacchino Cuntrò, attuale tesoriere del Pd torinese.
Nei giorni bui del maggio 2016, quando la sconfitta a sorpresa di Fassino per mano di Chiara Appendino aveva chiuso un ciclo politico, era proprio Cuntrò che scortava i giornalisti al colloquio con il sindaco sconfitto. Il factotum di fiducia. Adesso, in maniera informale, gli è stata appena conferito il coordinamento di IdeaTo, la corrente dei Gallo.
«Non è una questione penale, ma d’onore», sussurra un esponente della vecchia guardia e del vecchio sistema di potere. C’è il timore di un’onda lunga che si porti via una storia che appartiene a tutti, giovani e antichi leoni. Se Torino avesse il mare, mormora qualcuno, sarebbe una piccola Bari.
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