SIRIA: NON E’ UN PAESE, E’ UNA CAMERA A GAS

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Frédéric Helbert per "Espresso.repubblica.it"

Omar procede a fatica lungo una stradina in salita di Tripoli del Libano, come un vecchio. E' ingobbito, tiene lo sguardo basso, fisso sul marciapiedi. Ha il fiato corto, le gambe rigide. E i movimenti di un burattino slogato. Ogni passo è una sofferenza. Eppure Omar ha tredici anni. Due mesi fa in Siria, a Homs, una bomba ha mandato in frantumi la sua infanzia e la sua vita. «Era una bomba diversa dalle altre», dice con difficoltà, in un mormorio, questo bambino dal volto e dal corpo ustionati in modo atroce. «Dalla bomba si è alzato subito un fumo giallo, credo. Era molto denso. Mi hanno detto che ho perso conoscenza e che alcuni vicini mi hanno trasportato in un ambulatorio di campagna. Non ricordo più molto bene. Ma non ho visto i miei genitori. Da allora sono scomparsi. Voi sapete dove si trovano?».

Cala un silenzio pesante. Omar è ancora sprofondato nelle tenebre del suo incubo e per proteggerlo dal peggio gli è stata nascosta la verità: la sua intera famiglia è morta intrappolata in una casetta della parte vecchia di Homs. Sono morti soffocati, hanno detto i medici. Sono morti senza nessuna ferita fisica apparente, senza essere stati colpiti direttamente da un'esplosione qualsiasi, hanno detto alcuni testimoni.

Neanche Omar, che era in un'altra stanza, è stato colpito. Ma due giorni dopo sul suo corpo sono comparse ustioni, piaghe, vesciche, che lo hanno sfigurato. Poi sono sopraggiunti problemi di equilibrio, perdita di memoria, dolori muscolari. A Homs i medici hanno pensato immediatamente alle conseguenze di un bombardamento chimico. Ma quei volontari che avevano aperto un ambulatorio in aperta campagna non hanno potuto fare niente. Così hanno organizzato un trasferimento e clandestinamente l'hanno fatto portare in Libano. Speravano che lì il bambino potesse trarre giovamento da una diagnosi e da una terapia adeguata... Ma il "sogno" è rovinato dall'impotenza di coloro che nel Paese dei Cedri hanno accolto la vittima.

«Benvenuto nel Regno delle sofferenze misteriose, dell'orrore della guerra chimica». Usando l'ironia come un'arma di difesa, il dottor Ghazi Aswad, chirurgo francese di origine siriana, 58 anni, chiede con dolcezza a Omar, nell'ambulatorio che si chiama "24/24" di Tripoli del Libano, di sdraiarsi su un lettino per visitarlo. Il bambino "mummificato" da decine di bende obbedisce, con lo sguardo angosciato. Nell'ambulatorio preso d'assalto ogni giorno da almeno un centinaio di vittime civili della guerra, di rifugiati, soprattutto donne e bambini, talvolta combattenti, il dottor Aswad presta le sue cure dal mattino alla sera senza un minuto di respiro.

«Guardate: non parla più. Non mangia più. Vive annientato dal dolore e dal terrore. Attorcigliato su se stesso, murato nei ricordi. E' un "bambino-mummia". Un morto vivente. Perfino noi gli incutiamo paura. Perché le cure sono limitate e dolorose. Perché la malattia fa quello che vuole. E io non posso somministrargli altro che un antibiotico contro le infezioni e cambiargli le bende che si sporcano di continuo per le piaghe purulente, e questo aggiunge sofferenza alla sofferenza. Non possiamo fare altro. Avrebbe bisogno di creme dermatologiche speciali, di una reidratazione continua, di cocktail vitaminici ad alto dosaggio, di assistenza costante, fisica e psicologica».

Il dottore apre un vecchio cassetto che scricchiola e ne tira fuori una scatola di caramelle. La porge al suo piccolo paziente, strappandogli un leggero sorriso. Ne prende una, poi un'altra. Sono antidepressivi. Omar ne ingoia due in un colpo solo. «Il momento in cui tutto è andato in pezzi», racconta il chirurgo francese, «è stato quando abbiamo visto arrivare donne e uomini come Omar, con sintomi di cui non capivamo niente, prima di fare tutte le analisi possibili. Poi, per esclusione, siamo arrivati alla conclusione di avere a che fare con feriti che portano addosso i sintomi dei bombardamenti con armi chimiche».

Bruciature sottocutanee che corrodono l'epidermide, vesciche, irritazioni della pelle, deformazioni fisiche, perdita di capelli, della memoria, cedimenti del sistema nervoso, dolori muscolari o ossei, malori, nausea, vomito, accessi febbrili, astenia, paralisi. Tutto il corpo che si sfascia, letteralmente. Non c'è alcuna cura adeguata. E talvolta, alla fine, c'è soltanto la morte. «Un vero orrore», dice il medico. «Perché qui tutti noi siamo venuti come volontari da ogni parte del mondo. E ci siamo ritrovati davanti a un'impotenza cronica. A interrogativi. A rompicapi. E infine, alla certezza che il regime siriano impiega le armi peggiori in assoluto, come meglio gli pare».

Eppure il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama il 3 dicembre 2012 aveva detto: «Il mondo vi osserva. L'utilizzo di armi chimiche è e sarebbe assolutamente inaccettabile. Se Bashar alAssad cominciasse a utilizzare quelle armi, dovrebbe subirne le conseguenze». La famosa linea rossa è stata fissata. Una formula ripresa e fatta propria anche da numerose cancellerie occidentali, dalla Nato. E, con tutta evidenza è stata oltrepassata. A Tripoli, negli uffici del "Consiglio nazionale dei rifugiati siriani", nessuno però si stupisce. Un volontario sventola un appello datato 3 marzo 2012, redatto dal "comitato medico".

I dottori segnalano il moltiplicarsi di casi sospetti scoperti nei numerosi pazienti scampati alla battaglia di Bab Amr, una località nei pressi di Homs. Elencano i sintomi inspiegabili. Usano tuttavia termini misurati: «Le indagini mediche che abbiamo portato a termine, comprendenti test neurologici, esami del sangue e analisi di vario tipo, permettono al comitato medico di coordinamento dei rifugiati siriani di nutrire forti sospetti sull'esistenza di casi imputabili all'uso di armi chimiche o batteriologiche proibite. Per arrivare a una diagnosi precisa, abbiamo bisogno di una perizia medico-tossicologica e legale (autopsie), che però non possiamo realizzare in queste circostanze. Chiediamo dunque un aiuto medico internazionale e che le organizzazioni di difesa dei diritti dell'uomo indaghino su questi casi e che il dossier non resti senza seguito».

I documenti, le prove dell'uso di armi chimiche, sono poi arrivati e ora sono custoditi all'ospedale "Dar el Chifae" a Tripoli, una gemma di modernità sanitaria in una città abbandonata alla miseria assoluta. Il responsabile dell'istituto, il dottore Mahmoud El Sayed, membro del consiglio d'amministrazione del "Soccorso medico islamico" che gestisce svariate decine di ambulatori in tutto il Libano va dritto al punto: «Tutto lascia pensare che queste donne e questi uomini ai quali abbiamo cercato in ogni modo di alleggerire le sofferenze senza riuscirci siano stati vittime della chimica, di gas tossici.
Guardi tutti questi certificati e questi dossier, completi di analisi fatte all'ospedale».

Mostra decine e decine di pagine firmate da molti medici libanesi illustri, vidimati da un esperto di tossicologia che in questo clima pericoloso preferisce restare anonimo. Quelle carte parlano senza tanti giri di parole di «feriti di guerra, intossicazioni da armi chimiche, esposizione a gas tossici, neuropatie dovute a inalazione di gas chimici».

Nel caso di un pazienze alcune ferite gravi sono apparse due mesi dopo l'esposizione. Nel caso di un altro, il medico curante cita «una assai probabile intossicazione delle vie respiratorie (con sostanze tra le più pericolose): organofosfato o pentacloruro di fosforo».

Le schede del pronto soccorso, di consulti medici e referti sono redatte in francese e in inglese.«Questa vittima» si legge in un caso, «ha sofferto di dolori muscolari, ossei, emicranie atroci, perdita di capelli e paralisi progressiva dopo esposizione a un prodotto aeriforme». Il responsabile dell'ospedale commenta: «Non ci sono altre spiegazioni possibili. Tutti gli esami classici che potevamo fare sono stati fatti». Mahmoud El Sayed racconta, senza omettere i dettagli, le peripezie di pazienti usciti dalla Siria sotto le bombe e arrivati fino a lui. Le famiglie e gli amici hanno corso ogni rischio immaginabile tentando di evitare i sentieri minati, i check point, e hanno trasportato questi malati sulle barelle, caricandosene in spalla altri privi di quasi tutte le forze.

Ma il direttore dell'ospedale Dar el Chifae evita di parlare di politica. «In ogni caso, non abbiamo voluto essere strumentalizzati o strumentalizzare. Siamo medici, non diplomatici». Il dottor El Sayed ha preso il telefono e ha lanciato il suo allarme. Il suo codice rosso. «Ho chiamato tutti. Ho avvisato la Croce rossa internazionale. La Croce rossa libanese. Li ho richiamati tre volte. Ma mi sono sempre trovato davanti un muro. La Croce rossa non si è mossa. Non ha voluto occuparsi di pazienti gravemente colpiti. E nemmeno visitarli, aiutarci a formulare una diagnosi, curarli». Non si è fermato: «Ho chiamato quello che c'è di meglio a Beirut, a 70 chilometri da qui, l'Ospedale universitario americano. Anche loro mi hanno risposto che non potevano prendere sotto la loro responsabilità questi pazienti. Poi mi hanno chiesto di portare loro campioni di terra colpita in Siria dai proiettili per analizzarla».

La richiesta è giudicata «tanto bislacca quanto scandalosa» dagli esperti. Che sostengono: per determinare se c'è stata contaminazione chimica sarebbe stato sufficiente effettuare analisi, prelievi, esami sulle vittime e affidare il compito ai medici militari. Il dottor Sayed, disperato, ha quindi contattato il celebre "Hôtel-Dieu de France". Per sentirsi però rispondere ancora una volta: «Ci dispiace, non possiamo fare niente». La voce del direttore dell'ospedale si fa più ferma: «Adesso sfido tutti questi istituti prestigiosi che sono venuti meno al loro dovere principale a smentire questi contatti infruttuosi».

Ritornando ai suoi ricordi, il medico rammenta quei pochi giorni che avrebbero potuto rivelarsi decisivi. Grazie alla rete delle sue conoscenze, grazie alla sua fama, sventola la sua rubrica: «Se non altro sono riuscito a far venire alcune delegazioni di medici dal Kuwait e dall'Arabia Saudita, e naturalmente da Beirut. Ricordo benissimo alcuni dottori francesi, ma mentirei se dicessi di ricordarmi a quale organizzazione appartenevano esattamente. In ogni caso, tutti hanno distolto lo sguardo. Nessuno ha voluto confermare una diagnosi che avrebbe messo Obama e l'Occidente intero di fronte alle proprie responsabilità».

Ritorniamo all'ambulatorio "24/24" dove c'è Omar. Un medico ci accompagna al capezzale di un bambino di appena un anno e mezzo, Mohamad. Ha ustioni di secondo grado sul 40 per cento del corpo, e soffre di trauma respiratorio dopo aver inalato fumi tossici. Il bambino è sotto fleboclisi in un lettino di fortuna, sotto una spessa coperta, rivestito da una corazza di medicazioni. Sua madre Nola, arrivata dalla regione di Hama, è accanto a lui, non lo lascia un attimo. Veglia in silenzio, con lo sguardo fisso sul suo unico figlio. Soffre il suo stesso supplizio, ma conservando un volto impassibile, di una dignità esemplare. E rifiutandosi di nascondersi, come fanno molte donne che temono rappresaglie. Il padre del bimbo? Sta combattendo da qualche parte sul fronte siriano, sempre che sia ancora vivo. «Cambiamo le medicazioni del piccolo ogni tre settimane», dice il dottor Ahmad Obeid, 42 anni, diplomato in tossicologia. Prima della rivoluzione era stato scelto per entrare in una unità d'élite di un ospedale siriano. Questo dottore sa bene ciò di cui parla. E' per queste sue competenze che è stato preso di mira dalle autorità di Damasco quando operava in un ospedale di fortuna prima della sua "fuga" verso il Libano.

La storia di Mohamad corrisponde ormai a uno scenario dimostrato. Una bomba, fumi bianchi tossici, poi dopo 48 ore la comparsa di improvvise ustioni che bruciano la pelle. E dolori multipli. Gazhi Aswad viene al punto e la sua collera è inarrestabile: «Mohamad dovrebbe essere seguito costantemente. Ma per mancanza di letti non possiamo che ricoverarlo per due o tre giorni soltanto, giusto il tempo di cambiargli le medicazioni. Per lui è un supplizio. Poi sua madre è costretta a vestirlo, e ad andarsene dal centro. A tornare ogni due settimane. Questo è uno scandalo».

Ovunque, in cortile, nei corridoi dell'ambulatorio, una folla di feriti di tutte le età, attende il proprio turno. Mohamed ha 26 anni, porta la kefiah attorno al collo, combatteva per l'Esercito siriano libero (i ribelli) e racconta: «Un missile ci è caduto addosso. Tutti quelli che si trovavano in un raggio di dieci metri dall'impatto sono morti all'istante. Tuttavia, l'esplosione non mi è sembrata particolarmente forte. A prima vista non mi ero fatto niente. In mezzo a fumi di una puzza terribile mi sono sistemato la kefiah sul viso e sono scappato, credevo di essermela cavata. Invece molto presto ho iniziato a perdere le forze, i capelli, le unghie. Ho sentito il corpo cedere». Il giovane ci mostra una fotografia scattata al suo volto, gonfio, grande quasi il doppio del normale, dopo che i gas hanno fatto effetto: «Se dimentico le pillole, torna così. Sono invalido, ma sono vivo. Prima di venire qui ho visto degli uomini grandi e grossi, delle vere forze della natura, trasformarsi in scheletri ambulanti, diventare pelle e ossa».

All'improvviso chiamano il dottor Obeid per un'urgenza. Nel cortile dell'ambulatorio una donna supplica a gran voce. Il suo bimbo, senza più capelli, ha un'orrenda ferita lungo tutta la nuca, come se la pelle gli fosse stata strappata via in profondità. La ferita sembra terribilmente infetta. In reparto una segretaria ci mostra alcune immagini insopportabili: come la foto di Salim, un bambino di 11 anni giunto nel novembre scorso per un consulto. Anche lui arrivava dalla regione di Homs. Aveva vesciche e rigonfiamenti spaventosi. Anche sul volto. Come se fosse stato corroso da un acido. La sua cartella clinica è la prima di un voluminoso dossier. «Ferito da armi chimiche». E' uno dei casi più evidenti. «Al di là delle cure per il dolore, avrebbe bisogno di un intervento di chirurgia ricostruttiva, di operazioni estetiche. Ma non c'è nessuno che le paghi. Noi vorremmo mandarlo all'estero, ma come possiamo fare? Non ha documenti, non ha passaporto, ed è povero. Come fare? Siamo sommersi da casi di questo tipo e tutto il mondo se ne frega», sbotta Ghazi Aswad.

Quanto a Omar, il bambino-mummia, attende da bravo su un letto di fortuna di altri tempi. «Ho male dappertutto. Al viso. Al collo. Al torace», mormora strappandosi senza pensare un brandello intero di pelle. I suoi occhi neri fissano per terra, come sempre. La paura del prossimo è diventata la sua unica realtà. Il medico gli chiede di aprirsi i vestiti sul torace. E ciò che si vede è spaventoso. Il sangue, le macchie sospette che emergono dalle bende, il ventre diventato come un pezzo di marmo a strisce. Sono spariti interi brandelli di pelle. Le ossa sono quasi visibili. Il tossicologo siriano che lo assiste sbotta: «So che molte persone in Occidente si rifiutano di crederci e pensano a una montatura. Noi medici che ci battiamo per la vita, contro qualsiasi malattia e questo orrore atroce delle armi chimiche che distruggono tutto, chiediamo alla comunità internazionale di riflettere bene. Di riprendere in considerazione le sue posizioni sull'uso di armi chimiche ormai evidente da parte del regime siriano. Sì, nel mio Paese è ormai chiaro che queste armi sono state usate». Poi ribadisce: «Noi abbiamo qui i pazienti, abbiamo i casi clinici, abbiamo le prove. Abbiamo i documenti, le analisi e i medici possono spiegarvi come stanno le cose. Chiunque vorrà venire qui a vedere con i propri occhi sarà il benvenuto. Siamo disposti a dimostrarvi ogni cosa. A spiegarlo a tutto il mondo. Ma fate presto. Prima che sia davvero troppo tardi».

 

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