DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Estratto dell’articolo di Federico Fubini per www.corriere.it
[…] il punto di partenza del lungo viaggio fino ai trionfi di Alternative für Deutschland e all'affermazione della sinistra sovranista di Sahra Wagenknecht ieri – con la conseguente paralisi del sistema politico tedesco – non è di pochi mesi fa. Neanche di pochi anni fa. Simbolicamente lo metterei nell’estate del 2015, all’apogeo di Angela Merkel e del suo ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble.
[…] Entrambi, Merkel e Schäuble, avevano sostanzialmente piegato la ribellione della società greca contro un’austerità corrosiva: un taglio del deficit al netto degli interessi del 10% del prodotto interno lordo in appena cinque anni, coincisa con un crollo dello stesso Pil del 22,7% (cioè poco meno dell’Ucraina oggi).
Schäuble a quel punto aveva persino fatto circolare una proposta di espulsione della Grecia dall’euro, benché il governo di Atene ne avesse ormai accettato in pieno le condizioni. Quella crisi finì così. La Germania stessa manteneva ritmi di crescita rispettabili ed era fin troppo consapevole del suo ruolo di modello per molti altri Paesi dell’Unione. Chiedeva loro sforzi che li portassero ad assomigliare a sé, tradendo così anche un certo autocompiacimento.
Proprio in quelle settimane, l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente scopriva qualcosa che incredibilmente i suoi omologhi tedeschi e europei sembravano non aver mai notato: Volkswagen, il più grande costruttore di auto tedesco ed europeo, aveva manipolato 11 milioni di modelli venduti dal 2009 in avanti, perché non risultasse dai test che i loro motori diesel inquinavano ben oltre i limiti.
Da quello scandalo, Volkswagen avrebbe subito 27 miliardi di euro in spese legali. L’amministratore delegato di Audi Rupert Stadler, parte del gruppo, sarebbe stato condannato a un anno e nove mesi di carcere (con la condizionale) per aver continuato a vendere modelli manipolati ben dopo l’emergere dell’inganno. Il gruppo simbolo del Paese modello aveva cinicamente truccato i propri prodotti, a danno della salute dei clienti e delle persone comune, per nascondere le proprie difficoltà.
Ma dov’è il filo che tiene uniti i nove anni fra l’estate del 2015 e lo choc elettorale ieri sera in Sassonia e Turingia? E dove può portare?
Quei 2.400 miliardi di investimenti in meno
All’epoca non lessi subito lo scandalo Volkswagen per ciò che era: una spia rossa accesa sul sistema Germania; il segno che l’attaccamento alle tecnologie del secolo scorso, l’illusione di poter andare avanti con quelle, la riluttanza a ricercare nuove soluzioni investendo di più, tutto questo aveva messo il Paese su una strada sbagliata.
In quell’estate 2015 non percepivo pienamente come il governo Merkel stesse gettando le basi della crisi che ora paralizza il governo e alimenta l’ondata populista. Ho iniziato a vedere le crepe nel modello tedesco solo nell’inverno 2016-2017, perché la dinamica del credito, degli investimenti, della produttività, dell’innovazione e del reddito per abitante risultavano stranamente depressi per un Paese così poderoso e dalla finanza pubblica così robusta.
ALICE WEIDEL TINO CHRUPALLA - AFD
Qualcosa, in Germania, non tornava. Qualcosa si stava incrinando da dentro. Ben prima del Covid, prima delle guerre commerciali fra l’Occidente e la Cina, prima dell’invasione dell’Ucraina che ha interrotto le forniture di gas russo a basso costo. Avveniva tutto sotto gli occhi della cancelliera più ammirata del secolo – ammirata, in molti sensi, a ragione – la quale sembrava non accorgersi di niente.
La crisi "invisibile"
Vedremo tra poco che quella miopia di Merkel era così profonda da trasmettersi fino ai governanti tedeschi di oggi. Ma ormai, con il senno del poi, sappiamo precisamente quando il male oscuro iniziò a diventare visibile. Sappiamo anche che tutte le crisi di modello diventano poi crisi degli assetti politici. Perché il problema non è tanto che la Germania sia infelicemente decresciuta in quattro degli ultimi sette trimestri o che sia cresciuta zero negli ultimi due anni.
Né, caso unico fra i principali Paesi europei, che le sue esportazioni di beni in valori costanti (depurati dell’inflazione) siano in calo da due anni. Né il problema è solo che l’export tedesco verso la Cina nei primi sette mesi del 2024 sia crollato dell’11,5% rispetto a un anno fa. Tutto questo è successo.
Ma questi sono sintomi. Il problema è che non sono i primi sintomi.
- Negli ultimi dieci anni (2014-2023) la crescita annua media per abitante della Germania è stata dello 0,69%, persino inferiore a quella dell’Italia (fonte: Banca mondiale).
- Negli ultimi sei anni (2018-2023) la crescita annua media per abitante della Germania ha rallentato allo 0,1%, anche qui molto sotto a quella dell’Italia (la quale non è un modello per molti).
Decennio perduto
ANGELA MERKEL GIOCA CON PHON E PALLINA
Si inizia a capire il senso di frustrazione delle fasce deboli della società tedesca, che da anni vedono ristagnare il loro stato e allontanarsi i loro sogni. Si capisce che sfoghino il loro sentimento di impotenza nelle urne, contro il potere costituito. Naturalmente la crescita complessiva dell’economia tedesca è andata leggermente meglio della crescita per abitante (più 1,16% in media negli ultimi dieci anni e più 0,5% negli ultimi sei).
Ma statisticamente ciò si spiega con un afflusso netto di 7,9 milioni di lavoratori-consumatori stranieri dal 2010, circa due terzi dei quali dal Sud e dall’Est dell’Unione europea. In sostanza, malgrado gli enormi e crescenti surplus nel commercio con l’estero dell’era Merkel, malgrado la bassissima disoccupazione, malgrado la potenza industriale, l’economia tedesca si è espansa nell’ultimo decennio del cancellierato Merkel solo perché più persone sono entrato a farne parte immigrando dal resto d’Europa e del mondo.
Se il saldo migratorio fosse stato zero o poco più – se i giovani ungheresi, polacchi, cechi, spagnoli, italiani, portoghesi, greci, ucraini, siriani, afghani se ne fossero rimasti a casa loro – per la Germania saremmo già di fronte a un decennio perduto. Come il Giappone dopo la sua bolla. […]
Gli investimenti rinviati
Al momento in cui l’economia tedesca sviluppava le tecnologie che hanno portato alla sua supremazia nelle auto diesel, dal 1980 al 1989, il totale degli investimenti nel Paese è stato del 23,9% del Pil in media annua (vedete il grafico qui sopra). Non enorme, ma rispettabile. Gli anni ’90, speciali a causa dei costi della riunificazione, li tolgo dal calcolo. Ma poi nei vent’anni dal 2000 al 2019, quelli segnati dall’era Merkel, gli investimenti sono fortemente e sempre di più scesi in media al 20,8% del Pil all’anno.
Sembra una piccola differenza, ma sapete quanto è quello scarto del 3,1% del Pil in meno proiettato sul primo ventennio dell’euro? Be’, ai valori dell’economia tedesca di oggi la Germania avrebbe investito in vent’anni 2.400 miliardi di euro in più, se avesse continuato a investire come negli anni ‘80. Sarebbe un’altra Germania.
Vivremmo in un’altra Europa. Probabilmente Volkswagen non avrebbe dovuto truccare le centraline dei vecchi motori diesel per nasconderne l'inadeguatezza. Certamente il sistema industriale non si sarebbe fatto trovare impreparato all’avvento dell’elettrico o dall’ascesa dei chip o dell’elettronica in genere. Questa preferenza cronica per gli aggiustamenti incrementali mentre il mondo faceva salti quantici in avanti sulle tecnologie, questo attaccamento al mondo analogico mentre il mondo esplorava l’intelligenza artificiale – tipicamente europea, non solo tedesca – si vede bene nelle classifiche di competitività sul digitale.
[…]
La posizione di rendita
E qui c’è il paradosso. Perché investire troppo poco è tipico dei soggetti che si sentono in una posizione di rendita. I balneari in Italia o i tassisti di Roma investono poco. Ma non te l’aspetti da un sistema i cui leader predicano ogni giorno sforzi e sacrifici per la “competitività”, cioè l’opposto della rendita. Il mio sospetto è che inconsciamente si sia fatto largo nella psicologia della classe dirigente dell’era Merkel la tranquilla certezza che in effetti la Germania aveva conquistato con l’euro e la globalizzazione qualcosa di simile a una posizione di rendita.
Gli altri Paesi non potevano più svalutare sul marco; i giovani dei molti Paesi fragili d’Europa affluivano a milioni verso la Germania – il centro del sistema – portandole talento e rimediando alla sua demografia; il gas arrivava a condizioni speciali dalla Russia; e la Cina era aperta ai beni d’investimento tedeschi.
Inutile dire che questa posizione di rendita, se c’era, è saltata. Più interessante è che al cuore di questa mentalità di rendita c’era e resta il principio in apparenza più virtuoso, ma in realtà fortemente responsabile della scarsità di investimenti: il cosiddetto “freno al debito” creato da Merkel- Schäuble, il divieto costituzionale di fare deficit se non in misura minima, in teoria per avere spazio d’intervento con il bilancio pubblico in caso di tempi difficili.
E’ difficile dire cosa siano tempi difficili per la Germania se non quelli di oggi: economia ferma, reddito per abitante in rapido calo, trasformazione tecnologica da accelerare. Eppure il feticcio del “freno al debito” resta per intero, benché il debito sia molto basso e il pareggio di bilancio ormai molto vicino. E' la miopia di Merkel-Schäuble che si è trasmessa ai loro eredi. […]
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