DAGOREPORT – AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE…
ALBERTO SIMONI e ILARIO LOMBARDO per la Stampa
Si percepisce uno spiraglio a Palazzo Chigi. Dove definiscono «impressionante» la quantità di messaggi e telefonate ricevute da Mario Draghi, le dichiarazioni pubbliche di categorie e personalità italiane e internazionali che gli chiedono di restare alla guida dell'Italia perché andare via significherebbe mettere a rischio gli equilibri europei e i piani di riforma già impostati. Il muro che aveva innalzato il presidente del Consiglio sembra scricchiolare.
E come non potrebbe se lo chiamano al telefono i principali leader dell'Ue, il presidente francese Emmanuel Macron, la presidente della commissione Ursula Von der Leyen, il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Lo contatta anche Volodymyr Zelensky, il presidente ucraino preoccupato di perdere dopo Boris Johnson il più solido sostegno tra i capi di governo in Europa.
sergio mattarella e mario draghi
Non c'è ancora stata, invece, la telefonata di Joe Biden, impegnato nel suo viaggio in Medio Oriente: «Quando e se avverrà ve lo diremo, Draghi è un alleato prezioso e continuiamo a seguire l'evoluzione della crisi in Italia» fanno sapere a La Stampa fonti della Casa Bianca, mentre il presidente americano è a Gedda, in Arabia Saudita. John Kirby, portavoce per il Consiglio della Sicurezza nazionale ritiene che il premier italiano sia stato finora una delle sponde più importanti e convinte sulla questione ucraina e sulla strategia - lanciata dalla segretaria al Tesoro Janet Yellen e condivisa per primo dal suo amico di università Draghi - sull'oil cap price, il tetto al prezzo del petrolio.
Ieri il premier era a Lavinio, a riposarsi nella casa a mare sul litorale laziale. A tutti leader che lo contattano, l'ex governatore della Bce confessa le sue difficoltà, si dice «consapevole» del momento drammatico dell'economia, con la guerra, l'inflazione che sembra sfuggire al controllo, il caro energia. Le sfide sono ancora tante, gli dicono.
Il premier sostiene di non volersi sottrarre, ma «devono esserci le condizioni politiche».
E così, il giorno due dopo le dimissioni è quello delle aperture, della speranza di ricucire, della possibilità.
Aspettava un segnale dai partiti. O meglio: aspettava un segnale, un messaggio, un impegno dal M5S e da Giuseppe Conte, 24 ore dopo le infinite riunioni grilline in cui si era manifestata la volontà di rottura definitiva. Ebbene, quel segnale è arrivato, con un videomessaggio dell'avvocato all'ora di cena, anche se non è precisamente nei toni che si aspettavano alla presidenza del Consiglio. Ripropone le sue condizioni, Conte, i nove punti della questione sociale messi in mano di Draghi e a cui il Movimento vincolerà la fiducia, sapendo che c'è un tavolo tra esecutivo e sindacati previsto tra dieci giorni.
È un passo avanti. Forzato, quasi riluttante, figlio del compromesso tra le due anime del M5S, ma lo è. Il realismo politico impone di provarci. E infatti a Palazzo Chigi la porta non appare più serrata. È stato accolto con sollievo il cambio di linea di Matteo Salvini, che non sembra chiedere più il voto a ogni costo, né mettere sul tavolo lo scostamento come condizione per andare avanti.
Sul fronte del centrodestra c'è la certezza di vedere in campo il tessitore Gianni Letta, il consigliere di sempre di Silvio Berlusconi. I listini dei mercati al momento sono tranquilli, sembrano credere nella continuità del governo Draghi, e questo non è un dettaglio nelle dinamiche delle aziende di famiglia del patron di Forza Italia.
Al premier però non bastano i ripensamenti di un giorno.
Vuole che le parole a sostegno del governo di larghissime intese siano trasferite in Aula: «Devono impegnarsi pubblicamente in Parlamento». A tre giorni dalle comunicazioni alle Camere, a Draghi si propongono due scenari. Il primo vede i 5 Stelle rientrati in maggioranza. A modo loro, con l'irruenza e l'orgoglio di chi si sente ferito. Il secondo scenario, invece, passerebbe da un ulteriore trauma dei grillini.
GIUSEPPE CONTE E LA DEPOSIZIONE DI DRAGHI - BY EDOARDO BARALDI
L'operazione svuota-M5S va avanti. Una parte del Pd, Forza Italia e il gruppo di Luigi Di Maio spingono per sganciare da Conte un'altra fetta importante di parlamentari. È un'operazione che formalmente smentirebbe Draghi, che aveva assicurato di non voler guidare un governo senza il Movimento, ma numericamente sosterrebbe l'immagine di una maggioranza larga, di una coalizione di unità nazionale, con i 5 Stelle ai margini, come forza politica residuale in Parlamento.
I contatti tra i partiti e Palazzo Chigi sono continui. L'ipotesi B piace meno, ma sarebbe comunque una soluzione che preserverebbe la formula di governo costruita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella come risposta all'emergenza. Il «patto di fiducia» verrebbe ricostruito per non lasciare il Paese sospeso nel vuoto, a pochi mesi dalla legge di Bilancio e con una serie di decreti importantissimi, a tutela delle famiglie più povere, da licenziare.
D'altronde, raccontano che Mattarella ha tentato di persuadere il presidente del Consiglio con un ragionamento semplice: se comunque, anche in caso di elezioni anticipate a ottobre, Draghi terrebbe l'interim, quantomeno fino a novembre, fino cioè a quando sarà formato il nuovo governo, tanto vale conservare i poteri, fare una legge di Bilancio, trattare sul prezzo del gas in Europa, fare i decreti su bollette e aiuti alle famiglie. Tanto vale cioè restare dov' è, nel pieno delle sue funzioni, con l'ampia maggioranza che il Parlamento comunque gli garantirà.
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