DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera”
Da un anno (il primo scontro televisivo tra i candidati repubblicani alla Casa Bianca risale allo scorso agosto) la domanda rivolta a un giornalista che lavora negli Stati Uniti quando torna in Italia è sempre la stessa: com' è possibile che un popolo evoluto, una nazione leader come gli Stati Uniti, prenda sul serio un buffone fascisteggiante come Donald Trump?
«Perché è un mago nella comunicazione, usa tv e reti sociali come nessun altro e ha saputo intercettare la rabbia dei ceti medi bianchi impoveriti»: in genere rispondo così, in modo telegrafico e ipersemplificato a interlocutori, di sinistra come di destra, che voglio giudizi sintetici.
Quello del «trumpismo» è, però, un fenomeno molto complesso, anche se il miliardario repubblicano gioca a fare il Grande Semplificatore: lui è un istrione che si comporta spesso da clown, ma poi si prende molto sul serio. Si muove agilmente nella foresta delle sue contraddizioni proponendo una ricetta che, al netto degli elementi di incoerenza che lui stesso semina in continuazione, affonda le sue radici nel protezionismo, nell' isolazionismo e nel populismo.
Chi l'anno scorso sorrideva quando dall' America raccontavamo dei sondaggisti repubblicani allarmati nel riferire come i sostenitori di Trump fossero non solo in continua crescita, ma anche fedeli al loro candidato indipendentemente da ogni giudizio sulla sua competenza, coerenza e onestà personale, oggi ti chiedono, seri e increduli: «Ma può farcela davvero?». Effetto della Brexit, il divorzio britannico dall' Europa, più ancora che della vittoria di Trump nelle primarie Usa.
La rivolta contro i governi e contro le élite ha elementi comuni sulle due sponde dell' Atlantico, ma Trump, nonostante le sue venature xenofobe e autoritarie, è molto diverso (e lo sottolinea lui stesso) dai movimenti anti-immigrati e neofascisti che fioriscono in Europa.
Ci sono le ovvie differenze storiche e politiche tra Stati Uniti e area Ue, ma conta soprattutto la natura del personaggio Trump, che ha costruito la sua avventura politica, oltre che sulla notorietà televisiva e la ricchezza immobiliare, su un' immagine di «eroe anti-cartesiano del vago e dell' indistinto».
Un personaggio «incoerente per principio, contraddittorio per contratto, protagonista di un gioco di specchi che riflette desideri e aspirazioni dei suoi elettori», come scrive Mattia Ferraresi in La febbre di Trump , un saggio appena pubblicato da Marsilio nel quale il corrispondente dagli Stati Uniti del «Foglio» analizza il percorso che ha portato questo re del lusso pacchiano e dell' avanspettacolo televisivo fin sulle soglie della Casa Bianca.
Partendo dalle avventure del nonno, arrivato negli Usa dalla città tedesca di Kallstradt, fino ad arrivare all' odierno panico dei leader repubblicani, che vedono in Donald il demolitore dell' ideologia del loro partito, Ferraresi dimostra che il fenomeno Trump è meno inspiegabile di quanto non appaia a prima vista: il suo isolazionismo fa inorridire il «Grand Old Party», che vuole un' America muscolare e interventista, ma l' autore ricorda che buona parte della destra americana è stata isolazionista prima dell' era Reagan-Bush che ha rilanciato il ruolo internazionale degli Usa e prima del movimento «neocon» che, partendo dalla dottrina dell'«eccezionalismo americano», ha attribuito al Paese la missione di democratizzare il mondo.
trump candidato alla casa bianca
Quanto all' ostilità nei confronti del liberismo economico, quello di Trump è un atteggiamento che viene da lontano, visto che la fortuna immobiliare del padre e anche gran parte della sua è stata costruita con l' edilizia popolare sovvenzionata con denaro pubblico a Brooklyn e nel Queens, prima dello sbarco a Manhattan. E comunque i repubblicani non sono sempre stati liberisti: da Nixon, che fu statalista quanto i suoi predecessori democratici alla Casa Bianca, allo stesso Reagan.
Che fu il presidente della deregulation , sì, ma anche dei dazi punitivi (come quelli del 50% sulle moto giapponesi) quando c' era da proteggere qualche eccellenza industriale americana come la Harley Davidson.
La vera differenza tra Trump e i nuovi leader politici europei (e anche la chiave della sua invulnerabilità a ogni critica) sta, però, nella sua incredibile capacità di porsi al di là del vero e del falso. George Bush padre e John Kerry sono stati uccisi politicamente, alle presidenziali, dalle loro contraddizioni.
Trump non solo si contraddice di continuo (in una stessa intervista può dirsi «pro life», cioè antiabortista, e, poco dopo, affermare di comprendere le ragioni dei «pro choice», gli abortisti), ma se ne vanta perché è riuscito a imporre a una larga (quanto larga?) fetta dell' elettorato la logica del «reality»: non contano il vero e il falso ma le parole forti, anche se intrise di rabbia e volgarità.
E conta la personalità del protagonista, che con le sue doti magnetiche e un linguaggio ambiguo e «liquido» (e qui bisognerebbe aprire un capitolo sulle caratteristiche del «trumpese», figlio del semplificatissimo «basic English», un lessico che spinge anche gli adulti a ragionare in modo molto elementare) porta i suoi elettori ad ascoltarlo in modo selettivo: prendono per buono ciò che condividono e liquidano il resto come «boutade» .
Così Trump corre verso il «reality estremo: la conquista della Casa Bianca». Parole di un avversario? Macché: a dirlo è lo stratega della sua campagna, Paul Manafort.
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