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1. DIETRO AI SORRISI IL FUTURO DEL RICATTO ATOMICO
Fiamma Nirenstein per "il Giornale"
Ci sono tanti modi di considerare l'accordo siglato ieri dall'Iran e dai P5+1 a Ginevra. C'è la soddisfazione dell'Iran che vede riconosciuto dal mondo intero il suo diritto a arricchire l'uranio e guadagna l'alleggerimento delle sanzioni. C'è l'eco cacofonico della Siria di Bashar Assad, che considera l'accordo una vittoria della propria parte.
Poi però c'è la determinata preoccupazione dei Paesi sunniti, l'Arabia Saudita, l'Egitto e la Turchia (forse ormai d'accordo solo in questo): i sauditi già dichiarano che non resteranno con le braccia incrociate. Si prepara, cioè, un Medio Oriente atomico che nessuno avrebbe mai voluto vedere. Poi c'è Israele, dove Netanyahu eroicamente, nonostante il sofferto dissenso con l'alleato americano, ha ripetuto ogni giorno che l'accordo andava migliorato.
Oggi dice: «à un errore storico». Soddisfatti invece gli Usa e gli altri Paesi (specie la signora Ashton, intellettualmente sedotta dal ministro degli esteri iraniano Javad Zarif, cui dedicava sorrisi supplicanti) che hanno perseguito disperatamente l'accordo di sabato notte. Dal punto di vista americano l'accordo è buono perchè congela per sei mesi sperimentali il programma.
Si limita l'arricchimento, si deve procedere alla diluizione delle riserve fino al 3,5 per cento, tre quarti delle centrifughe già istallate a Fordow e metà di quelle di Natanz verranno congelate, non si istallano nuove centrifughe. Ma l'Iran seguita ad arricchire al 3,5. Il reattore di Arak non verrà smantellato come richiesto, e quando sarà pronto per produrre plutonio il suo sarà un ciclo completo per la bomba.
L'accordo non smantella niente, l'Iran nell'eventualità di una decisione politica con ciò che ha produrrà e assemblerà subito l'atomica. Il diritto dell'Iran all'arricchimento sul suo suolo difficilmente fra sei mesi verrà cancellato. Lo stop all'arricchimento dell'uranio oltre il 20 per cento può essere rovesciato in qualsiasi momento dato che sul territorio iraniano ci sono ormai 18mila centrifughe, e otto tonnellate di uranio arricchito al 3.5-5 per cento, abbastanza per 5 bombe come quella di Hiroshima.
I residui 200 chili di uranio arricchito al 20 per cento possono in fretta diventare bombe atomiche. L'Iran si è impegnato a non usare le centrifughe IR2M superveloci, ma per ogni verifica l'Aiea, l'agenzia internazionale per l'energia atomica, dovrà lavorare duro: l'Iran è determinato a perseguire un'agenda islamista, deciso ad essere il prossimo leader mondiale con la forza del ricatto atomico.
Khamenei, la «Guida Suprema» solo due giorni fa descriveva gli israeliani come «cani rabbiosi» da steminare, e guidava il coro «morte all'America». L'Iran è il Paese che produce terrorismo e arma gli Hezbollah, che nega ogni diritto umano. Ma un giornalista a Ginevra ha chiesto allo spokesman della Ashton di commentare le parole di Khamenei e stizzito il giovane ha detto di non averne intenzione. A forza di credere nella dottrina Obama, abbiamo scelto di non credere più in niente.
2. DA ISRAELE ALL'ARABIA I GRANDI PERDENTI FANNO FRONTE COMUNE
Francesca Paci per "la Stampa"
L'altra faccia dell'accordo sul nucleare iraniano è quella torva dei Paesi che fino all'ultimo hanno remato contro e continuano a farlo. Israele, ovviamente. Ma anche l'Arabia Saudita, l'Egitto e, dietro la maschera triste del pagliaccio che ride, la Turchia, lesta a congratularsi con i negoziatori per guadagnare un credito presso il nuovo vincente fronte sciita dopo le ripetute batoste subite nel tentativo di porsi alla guida dell'islam sunnita.
In Israele l'umore tende al nero. Sebbene il presidente Peres si sia detto «cautamente ottimista» e le borse abbiano reagito positivamente, il premier Netanyahu ha definito «un errore storico» la fiducia accordata a Teheran. Secondo Yoel Guzansky dell'Institute for National Security Studies di Tel Aviv i nuovi sviluppi allontanano l'ipotesi di un attacco militare, che sarebbe visto ormai come «un sabotaggio dei 10 anni trascorsi tentando di spingere l'Iran a trattare». Ma Bibi, forte del malcontento regionale, insiste che «tutte le opzioni sono sul tavolo».
Riad non ama l'associazione con Israele e mantiene un profilo basso, ma lo schiaffo ricevuto da un'America sempre più prossima all'indipendenza energetica brucia. Il principe Alwaleed bin Talal afferma che «Obama è stato sopraffatto dall'Iran» e il consulente esteri dello Shura Council Abdullah al Askar ammette l'allarme nazionale per l'espansionismo di Teheran che «ha provato mese dopo mese di avere una brutta agenda regionale, rispetto alla quale nessuno dormirà più».
La corona però, diversamente dai giorni della retromarcia di Washington sull'intervento in Siria, tace. Gli analisti ritengono che cercherà di avere una compensazione (più libertà di manovra in Siria?), essendogli impossibile condannare chiaramente un accordo applaudito dal governo sciita di Baghdad e dal presidente siriano Assad (contro cui Riad finanzia la rivolta).
«Il mondo arabo potrebbe preoccuparsi che, forti del successo con l'Iran, gli Usa facciano meno in Siria e in Egitto» twitta in serata il guru della Johns Hopkins University Vali Nasr.
Di certo il ritorno di Teheran non garba ai paesi sunniti del Golfo. Secondo l'ex ambasciatore americano a Riad Robert Jordan i sauditi potrebbero sentirsi addirittura meno minacciati dall'atomica iraniana (rispetto alla quale ripetono ancora di essere pronti ad acquistarne una dal Pakistan) che dalla neo superpotenza sciita, sponsor di Damasco, degli Hezbollah libanesi, dell'Iraq post Saddam, del Bahrain e delle irredente provincie orientali saudite.
Il terremoto mediorientale è appena cominciato. Eppure il premier turco, reduce dallo scontro a colpi di ambasciatori ritirati con l'Egitto, sta cercando riparo modificando in corsa la sua politica estera (che voleva avere zero problemi con i vicini e avendo invece sposato la causa perdente dei Fratelli Musulmani si ritrova nei guai). Così il ministro degli esteri Davutoglu è appena stato a Baghdad e si prepara a recarsi a Teheran.
L'Egitto vigila cupo. L'ex beniamino di Tahrir el Baradei si compiace dell'apertura all'Iran ma lui è ormai considerato un traditore in patria, dove il quotidiano governativo «al Ahram» sottolinea la vaghezza dell'accordo. Di certo la giunta militare al potere non apprezza, come s'intuisce da fonti vicine all'esercito («è la prova della debolezza di Obama, una vittoria netta di Teheran»).
Dopo la deposizione dell'ex presidente Morsi il Cairo ha ricongelato i rapporti con la repubblica degli Ayatollah. Inoltre, alla ricerca di una posizione di forza, i generali si son messi a flirtare con Mosca per far capire a Washington che la vecchia alleanza non era garantita. Un bluff, concordano gli analisti, che potrebbe finire male se gli Stati Uniti, concentrati sull'Iran, li prendessero in parola.
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