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Franco Cordelli per il "Corriere della Sera"
Sui giornali di ieri mattina c'erano delle foto che facevano impressione, erano quelle dei centri urbani affollati come in nessun giorno normale. C'era nell'aria il senso di una «riapertura». Il passaggio da zona arancione a zona gialla era sufficiente perché così fosse?
Naturalmente no, anche se non si sarebbe potuto consigliare ogni persona di scegliere un'altra strada per la propria, bramata, sacrosanta passeggiata. Quelle foto non sarebbero un buon segnale per avviare il nostro discorso. Esso riguarda il teatro. Ricordiamo bene cosa il ministro Franceschini all'inizio di novembre rispondeva alle sollecitazioni che gli giungevano a non chiudere tutto.
Diceva, non avete visto quanto sono lunghe le file delle ambulanze davanti agli ospedali? I grafici di novembre e dicembre gli dettero ragione. Ma se tante regioni da arancioni o rosse sono diventate gialle, nuove e oggettive ragioni di mutamento ve ne saranno. Questa osservazione riguarda la situazione italiana in generale e il nostro discorso in particolare.
Che cosa intendo dire? A parte tutti gli spettacoli che fu possibile vedere all'aperto, anche al chiuso tra fine settembre e l'intero ottobre, a teatro in tanti sono andati in tutta tranquillità. Non si è mai avuta una notizia specifica di contagi a partire da quelle folle che folle non erano, da quelle prossimità che prossimità non erano.
Le misure di igiene e protezione furono sempre con precisione mantenute. Lo stesso si potrebbe dire per i cinema, ma non voglio allargare il discorso, il cinema le sue vie di uscita le ha con la televisione. Il teatro non ne ha nessuna. Non basta Rai5 e non basta l'idea di una piattaforma tipo Netflix.
C'è stato già abbastanza tempo per prenderne consapevolezza. Quello che è necessario capire riguarda peculiarmente il teatro, ciò che gli uomini di teatro rifiutando la televisione non si stancano di ripetere: la necessità della parola dal vivo, della parola detta da donna a donna, da uomo a uomo.
Quella parola non è una informazione, e non è neppure una comunicazione ordinaria. È una parola simbolica, che va oltre la stessa fisica del contatto, ovvero del «rapporto umano». Senza teatro non ci sono né società, né civiltà. Che gli spettatori siano tanti o pochi importa fino ad un certo punto. Ciò che importa è che non si pensi il teatro sia impossibile, che recherà malattia.
La malattia, una più profonda malattia, verrà se i teatri rimarranno chiusi ora che riaprirli con le dovute cautele sarebbe semplice e molto meno pericoloso che lasciare inavvertite le persone a passeggio tutte nelle stesse piazze.
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