“CHIARA, TI RICORDI QUANDO HAI AMMESSO A FEDEZ CHE TI SEI SCOPATA ACHILLE LAURO?” - IL “PUPARO” DEL…
DAGONOTA
Tragedia di un Bulletto ridicolo. Scatta la corsa al necrologio per Matteuccio. I renziani dicono che per lui “ora servirebbe la camicia di forza”. Carlo Calenda si candida apertamente per il dopo. E da Bruxelles bocciano la sua politica economica, zeppa di bonus e mance, senza appello. Le sue “mandrakate” a Bruxelles ora ci costeranno caro.
Lo stesso Ducetto (scrive Repubblica) si rende conto dell’aria cambiata (ed in peggio). “E’ un tiro al piccione. Ed il piccione sono io”. Al punto che a Montecitorio c’è chi fa il verso a Stalin. Baffone si domandava: quante sono le divisioni del Papa? Ora tutti a chiedersi: quanti sono, realmente, gli uomini di Renzi dentro il Pd?
E pensare che a Matteuccio sarebbe bastato poco per capire in quale cul de sac si andava ad infilare… Se avesse studiato un po’ la storia avrebbe scoperto che l’Italia è piena di tanti “9 settembre”. E che la fedeltà non è proprio una caratteristica intrinseca alla classe politica.
MATTEO RENZI, BULLO DEL BAGNO MARIA ELENA
Come questo disgraziato sito scrive da mesi, il Ducetto rischia la solitudine. Un rischio che sta diventando giorno dopo giorno sempre più palpabile. Anche perché, non ne ha azzeccata una. Luigi Einaudi lo diceva per i risparmiatori, ma vale anche per gli elettori: hanno la memoria di elefante e le gambe di lepre.
Ma la storia non dev’essere stata a scuola la materia preferita del Ducetto. E le scorciatoie in Politica vanno bene nel breve periodo, poi – come le bugie – escono allo scoperto. E di bugie, Renzi sembra essere un esperto. Tant’è che ormai nessuno gli crede più.
In fin dei conti, un futuro lo può ancora avere: papà Tiziano è un esperto di outlet. In quel settore gli sconti sono la norma. In Politica, meno. C’è il rischio che, attirata l’attenzione per il tono di voce alto, poi qualcuno ascolti anche quel che dici. E, di solito, chi parla a voce alta o è sordo, oppure ha poco da dire. Come i bulli.
Goffredo De Marchis per la Repubblica
«È un tiro al piccione. Il piccione sono io», dice Matteo Renzi agli amici nel giorno in cui è sembrato più solo dal 4 dicembre. Per rompere l’assedio il segretario del Pd ha telefonato all’ultimo dei padri nobili del centrosinistra ad averlo messo nel mirino: Giorgio Napolitano. Era un mese che non si sentivano. Ieri mattina l’ex capo dello Stato si è scagliato contro il voto a giugno secondo lui dettato dal «calcolo tattico di qualcuno». Praticamente ha fatto nome e cognome. Renzi non ha chiamato per litigare, ma per esprimergli solidarietà dopo le offese di Matteo Salvini. Eppoi, certo, ha spiegato al presidente emerito la sua posizione.
Una posizione che fatica a farsi strada in Parlamento e viene osteggiata da altri leader di quello che fu l’Ulivo, non a caso evocato da Pier Luigi Bersani in un’intervista all’Huffington. Da Romano Prodi a Bersani, sempre più prossimo alla scissione, da Massimo D’Alema, che ha già tratto il dado, a Enrico Letta, silente ma critico. D’Alema fondatore dell’Ulivo è una definizione che fa sempre arrabbiare Renzi, (semmai lo considera l’affondatore del progetto), ma è un fatto che quel gruppo dirigente, con il suo carico di storia (glorie ed errori compresi), lo ha isolato. Ha rotto con lui in maniera definitiva. Per Renzi però non ci sono ragioni politiche in questo strappo. Vogliono buttarlo fuori, è il pensiero del segretario. Punto.
Altri segnali non sono buoni, come la rivolta dei parlamentari del Pd, di tutte le razze e correnti, dopo l’uscita renziana sui vitalizi. Persino gli amici più cari, a Montecitorio, invocano, scherzando, «la camicia di forza», descrivono «la scarsa lucidità» del leader. E se si parla di soldi, allora altri insinuano che Renzi voglia correre al voto per avere finalmente lo stipendio da parlamentare. «Parliamo di vil denaro? - dice Enzo Lattuca, giovanissimo deputato Pd -. Negli ultimi 4 anni, io ho versato al partito 125 mila euro. Matteo quanti?».
È sempre più evidente che Renzi non può giocarsi il tutto per tutto da solo. Deve avere delle sponde, non può spaccare tutto, è obbligato a salvare il salvabile. Infatti ora dice: «Cercherò di coinvolgere tutto il partito nel percorso. Parlerò con tutti. Mi dispiace che passi l’idea che io voglia andare alle urne per forza. Non è così. Non me l’ha mica ordinato il dottore».
La sua linea però non è cambiata, la frenata riguarda gli equilibri esplosi del Partito democratico, non i buoni motivi per andare a votare a giugno. O meglio, il buon motivo perchè Renzi lo ha ridotto a uno, il più convincente secondo lui, quello fondamentale. C’è una legge di bilancio difficile da varare a settembre, è l’analisi del segretario, «miliardi e miliardi delle clausole di salvaguardia da gestire». Questa legge perciò la deve scrivere e votare un governo forte, legittimato dalle urne, che abbia 5 anni di lavoro davanti. Messa così, diventa una questione di buonsenso e di rispetto verso gli elettori e non la paura di pagare un prezzo salatissimo nel febbraio del 2018 dopo una finanziaria varata comunque da un governo del Pd, il governo Gentiloni.
renzi nella sede pd del nazareno
Prima della direzione del 13 febbraio, Renzi proverà a spiegare la linea ai big del Pd e con lui lo faranno i fedelissimi. Ieri per esempio alla Camera ci ha provato Graziano Delrio discutendo invano con Bruno Tabacci. Il congresso non è invece una soluzione, non serve a pacificare il Pd, è il pensiero di Renzi. «Non lo hanno voluto loro, quelli della minoranza. È pazzesco come faccia fatica a emergere questa semplice verità. Lo hanno chiesto invece quando la Consulta ha confermato i capilista bloccati...».
Come dire: quando ci sono stati i posti in ballo, si sono svegliati. Per sedersi al tavolo delle candidature. Però qualcosa deve cambiare nella natura renziana. Ormai è evidente anche a Largo del Nazareno. E non basta fare accordi con la Lega e con Grillo, il quale poi cambia idea sui capilista. Renzi giura di essersi convinto. Ma al patto con Salvini e M5s non rinuncia.
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