
DAGOREPORT - DIRE CHE SERGIO MATTARELLA SIA IRRITATO, È UN EUFEMISMO. E QUESTA VOLTA NON È…
Filippo Mazzotti per "Libero"
I metodi dogmatici e sbrigativi con i quali in Europa viene affrontata quella che solo la nostra pigrizia lessicale ci conduce a chiamare ancora "crisi del debito", determinano una sensazione sgradevole: quella che ci sia una parte rilevante della classe dirigente europea che se il debito pubblico non esistesse se lo inventerebbe per continuare a disporre di uno strumento di ricatto per imporre un modello economico e sociale che le popolazioni rifiutano, aggirando la normalità del metodo democratico rappresentativo.
C'è una battuta consolatoria che gira da qualche anno fra i governanti europei: tutti noi sappiamo quello che si deve fare, quello che non sappiamo è come essere rieletti dopo averlo fatto. Si dice che appartenga a Jean Claude Juncker, ma l'attribuzione è incerta. Quel che è certo, invece è che risale almeno al 2007 e questo spiega molto. Quando la crisi è arrivata, i primi a non credere di poterla affrontare con gli strumenti della politica non erano i governati ma i governanti, che pure ad essa devono la loro presenza al potere.
La crisi del 2008 è stata determinata dagli eventi, magari prevedibili ma comunque incontrollabili. Quella iniziata alla fine del 2010, invece, è stata provocata da decisioni deliberate, quasi alla ricerca di un'occasione di fare, finalmente liberi da vincoli di consenso popolare, "quello che si deve fare".
LE MACERIE
Stupisce la stridente contraddizione fra la consapevolezza che le forze democratiche dei Paesi europei mostrano circa l'inadeguatezza delle politiche di austerity e la desolante inazione che ne segue. Si moltiplicano le invocazioni di cambiamenti di passo che, di fronte a una direzione percepita come ineluttabile, ed il cui solo approdo possibile è il declino, finiscono per suonare come vuoti richiami retorici. Il divario con i tassi di interesse decennali emessi dalla Repubblica federale tedesca è stato elevato a misura di tutte le cose.
à del tutto evidente come il giudizio dei mercati non sia irrilevante e le politiche economiche debbono tenerne conto. Le modalità con cui farlo, tuttavia, non sono necessariamente univoche e quelle attualmente imposte ai Paesi sotto programmadi salvataggio, nonpossonoe non devono essere esenti da critiche.
Chi acquista un buono decennale tiene conto di due possibili elementi: la probabilità che quel prestito venga restituito, il che dipende dalle condizioni economiche e di finanza pubblica che il Paese emittente avrà alla scadenza; la convenienza a cedere quel credito sul mercato secondario, il che dipende dalle fluttuazioni giornaliere del mercato delle obbligazioni statali. Gli orizzonti temporali possibili sono i dieci anni o i dieci secondi, eppure da ormai quasi quindici anni siamo inchiodati al feticcio del deficit annuale.
La legittima aspirazione italiana ad un approccio europeo orientato all'espansione dell'economia ed al riassorbimento della disoccupazione richiede un impegno politico che non può essere solo retorico. Esiste un Paese, la Grecia, nel quale "quello che si deve fare" è stato fatto e, malgrado i proclami interessati e strumentali che si moltiplicano sul buon esito di quell'operazione, le macerie sono sotto gli occhi di tutti, visibilissime anche nel silenzio dell'informazio - ne: disoccupazione prossima al 30%, reddito pro capite crollato di più del 20%, debito pubblico che nonostante le ristrutturazioni supera il 170%, una situazione sociale da crisi umanitaria, e tensioni diffuse che costringono le forze politiche a votare le manovre richieste dalla Troika a notte fonda nei giorni festivi.
INTERESSE NAZIONALE
L'Italia non è estranea a questo disastro e la sua invocazione ad abbandonare la linea dell'austerità non sarà credibile finché non cesserà di contribuire, anche solo tacitamente, ad infliggerla agli altri. I creditori della Grecia sono gli Stati, cioè i contribuenti europei, compresi quelli italiani, in una misura vicina al 20% del totale, esclusa la quota riferibile al fondo monetario internazionale.
Eppure le politiche della Troika continuano ad essere molto più interessate agli interessi del sistema bancario, come emerge dalla recente trattativa con il governo greco circa la fine della moratoria sulle aste delle prime abitazioni dei mutuatari che non pagano le rate. Se molte famiglie greche perderanno la casa, l'interrogativo che si pone è se i creditori, in nome dei quali queste richieste vengono avanzate, cioè anche i contribuenti italiani, ci guadagnino qualcosa. In caso di una, ovvia, risposta negativa ciò significherebbe che, oltre ai debitori, ad essere espropriati della propria sovranità sono anche i creditori e c'è qualcun altro che decide per entrambi, con i soldi degli italiani e la vita dei greci, nel totale arbitrio.
Non è una questione di generosità ma di interesse nazionale, innanzitutto economico. L'Italia, che fornisce risorse quasi pari a quelle della Francia e due terzi di quelle messe a disposizione dalla Germania, che spesso sembra essere l'unico Paese a sostenere ipotetici sacrifici, non ha alcun interesse a che un suo tradizionale mercato di esportazione sia ridotto in condizioni simili.
Le esportazioni italiane, normalmente vicine agli 8 miliardi di euro annui, sono oggi dimezzate con tutto ciò che ne consegue in termini di produzione, di occupazione e anche di gettito. Non in Grecia, in Italia, e non è accettabile che si prosegua a dettare condizioni al governo greco prescindendo dalla convenienza di uno dei creditori più importanti. Anche limitandosi alle somme riferibili al primo bailout, condotto attraverso prestiti unilaterali, l'Italia ha sostenuto uno sforzo di oltre 10 miliardi di euro per il salvataggio della Grecia e gli accordi originari prevedono interessi pari a 300 punti base più l'euribor.
L'entrata pubblica che ne deriva non è assolutamente congrua rispetto al danno economico complessivo che l'Italia subisce dalle iniziative della Troika e, se la richiesta di un mutamento di approccio che l'Italia giustamente avanza non venisse accolta, occorre che il Paese prenda le distanze da tali scelte, rinunciando anche unilateralmente a percepire gli interessi, come unico modo concreto, e finanziariamente accessibile, per sconfessare l'operato della Troika che, anziché avvantaggiarci, ci danneggia.
à il prezzo che bisogna pagare per ricevere un vantaggio molto più grande, conseguire l'egemonia politica del fronte dell'Europa meridionale, ed ottenere un cambio di passo generale delle politiche europee. A meno che non si speri, più o meno segretamente, il contrario.
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