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Davide Carlucci per "La Repubblica"
«Il sistema Daccò esiste, il quadro probatorio della procura è stato da me, in gran parte, confermato: la fondazione Maugeri dipendeva in tutto dai rimborsi della Regione». A parlare non è un testimone dell'accusa ma uno dei principali indagati nello scandalo Maugeri, Gianfranco Mozzali. L'uomo non ama i riflettori e interviste non ne rilascerebbe mai.
E infatti, tecnicamente, questa non è un'intervista: nello studio del suo avvocato, Luigi Ferruccio Servi, a Sesto Calende, località del Varesotto dove il Ticino incontra il lago Maggiore, assistiamo a una conversazione tra il legale e il suo cliente. La sua testimonianza, messa a verbale, è un macigno contro Formigoni, che ha reagito dicendo che «i suoi scenari non hanno fondamento». Ma il manager non arretra di un passo.
Conferma: bisognava pagare Piero Daccò, insiste, altrimenti non si andava da nessuna parte. E spiega perché: «Dal 2002 l'istituto non era più in grado di andare avanti con le sue forze. Non glielo consentivano i costi che era costretto a sostenere. E per sopravvivere doveva necessariamente bussare alla porta del Pirellone guidato da Formigoni».
Mozzali, 56 anni, milanese, laureato in Scienze politiche, ex titolare di una società , la Mds, al servizio del direttore amministrativo della fondazione Maugeri, Costantino Passerino, che se ne serviva per i trasferimenti di denaro verso i conti esteri di Piero Daccò. Soldi - in tutto 70 milioni di euro - che servivano a ricompensare il faccendiere amico di Roberto Formigoni per le delibere che hanno fruttato in dieci anni duecento milioni di euro alla fondazione.
Mozzali ha ammesso le sue responsabilità , ha scontato tre mesi e quattro giorni di carcere. E quando il suo avvocato, il 17 luglio, gli ha detto, scherzando: «Mi sono stancato di vederti qui, da domani ci vediamo a casa», è scoppiato in lacrime. Ora medita di scrivere un libro per raccontare la sua storia di colletto bianco catapultato dall'anticamera del potere in una cella di San Vittore. Dalle sue mani sono passati tanti di quei soldi ma «lui non si è arricchito», assicura Servi. E quando sarà tutto finito dovrà anche cercarsi un nuovo lavoro.
«Formigoni dice che sono un signor nessuno? à normale, ed è anche meglio perché mi dà ragione. Io non ho mai incontrato nessuno in Regione e in effetti, nessuno lì, mi conosce. Io mi interfacciavo con Passerino, era lui il mio dominus. E con Daccò, l'interlocutore di Passerino. Per questo i meccanismi li conosco, sia perché me ne parlava Passerino, sia perché assistevo direttamente ai colloqui fra i due».
In un passaggio del suo verbale, per esempio, Mozzali dice che «Passerino con Daccò usava un linguaggio più disinvolto... spesso mi riferiva di avergli detto di "darsi da fare col suo presidente" e che "si desse una mossa" per fare quel che lui chiedeva». Sono racconti come questo - convergenti con quelli degli altri manager arrestati - che portano la procura a parlare di «sistematico asservimento della discrezionalità amministrativa della Regione Lombardia».
Mozzali non ha mai millantato incontri diretti con Formigoni o con il suo entourage. «Il presidente lo incontravo solo durante le cene a Milano, da Sadler, organizzate da Daccò, o a Rimini, al ristorante Lo Squero, in occasione di due Meeting di Cl. Ci andavo in sostituzione di Passerino, quando non poteva andarci direttamente lui. E un po' controvoglia, soprattutto a Milano: erano le classiche cene di rappresentanza, un po' noiose, e poi io non amo la cucina troppo elaborata». Era ospite dei meeting di Comunione e Liberazione pur non essendo affatto un ciellino. «Non lo sono mai stato ma non appartengo nemmeno a un'area politica ostile a Formigoni ».
Ma l'uomo che materialmente pagava Daccò, che a sua volta girava i soldi ad Antonio Simone, l'ex assessore ciellino arrestato come lui nell'inchiesta, sapeva perché bisognava accontentare la "strana coppia". A spiegarlo è l'avvocato Servi citando un episodio. «Quando, nel 2011, fu perfezionata l'operazione di via Dardanoni, l'acquisto di una clinica a Milano da parte della fondazione che avrebbe fruttato 5 milioni di euro a Simone e Daccò, Mozzali sconsigliò vivamente quest'operazione, giudicandola assolutamente anti-economica. Ma Passerino insisteva, temeva che i due se la prendessero a male». Era lo scotto da pagare, a due "mediatori" troppo vicini al potentissimo Formigoni.
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