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Pietro Del Re per "la Repubblica"
Se all´aeroporto di Tripoli si spara, e se le milizie ancora taglieggiano l´ormai estenuato Consiglio nazionale di transizione, nella capitale della Cirenaica l´ubriacatura di libertà del dopoguerra libico non è ancora svanita. Ieri, lo scalo internazionale è stato occupato per tutta la giornata dagli uomini della brigata di Al Tarhuna, con il pretesto di ottenere chiarimenti sul rapimento di uno dei loro capi.
Dopo aver occupato la pista con mezzi blindati e fatto scendere i passeggeri che si trovavano a bordo degli aerei pronti al decollo (quelli del volo Alitalia sono stati evacuati in totale sicurezza), i miliziani hanno sparato in aria colpi di mitra, ferendo lievemente un addetto allo scalo. A sera, dopo un colloquio con il presidente del Consiglio nazionale di transizione, Mustafa Abdel Jalil, e aver ricevuto la promessa di chissà quale risarcimento per il loro "valoroso" contributo alla rivoluzione libica, la soldatesca ha finalmente lasciato l´aeroporto.
Come spiega un imprenditore italiano che vive e lavora da anni in Libia, e che preferisce mantenere l´anonimato, i miliziani ancora in armi sono pochi: tremila uomini, anzi ragazzi, l´80 per cento dei quali, prima della rivolta non era mai stata a Tripoli. «Adesso sostengono di aver liberato il Paese, dimenticando che senza i caccia della Nato a quest´ora sarebbero tutti diventati concime», dice l´imprenditore.
Fatto sta che prima della brigata di Al Tarhuna, l´aeroporto era stato occupato dalle milizie di Zintan, che l´hanno finalmente lasciato nelle mani della polizia all´inizio di maggio, dopo aver ricevuto in cambio svariati milioni di euro. Si tratta delle stesse milizie che da ottobre detengono il figlio del Colonnello Gheddafi, Saif el Islam, e che per consegnarlo alle autorità di Tripoli chiedono altri soldi.
Per via degli ex insorti ancora in armi, che ancora sparano in aria per festeggiare o per ricattare il potere centrale, agli occhi del mondo la Libia è ancora un luogo pericoloso. «Ma sono ormai bande di quartiere, che gli stessi libici non sopportano più. Il 27 aprile una bomba devastò parte della cancelleria di Bengasi. I primi ad arrivare furono i miliziani e la folla li fischiò. Quando finalmente arrivarono i primi poliziotti, questi furono applauditi», minimizza il console italiano, Guido De Sanctis.
Intanto, a Bengasi il Colonnello è sempre lì, con un cappio al collo o travestito da clown: nessuno ha infatti cancellato i grotteschi murales che affrescano la Mahkama, il palazzo del tribunale dove il 17 febbraio 2011 partì la rivolta che in otto mesi rovesciò il quarantennale regime di Gheddafi. In città s´inaugurano di continuo nuovi bar e nuovi ristoranti, ovunque svettano gru per costruire o ricostruire, i negozi sono pieni di merci e colmi di clienti. La settimana scorsa ha perfino riaperto lo storico consolato italiano, quello che fu assaltato e dato alle fiamme nel 2006. In rada, sono ormeggiate decine di petroliere e portacontainer. Era dagli anni Settanta che non si vedevano tante navi, quando Bengasi era per gli europei la porta d´Africa, prima che Gheddafi la chiudesse.
A questa euforia postbellica l´enorme quantità di dinari appena stanziati da Tripoli fornisce adesso nuova linfa. Il Consiglio nazionale di transizione ha appena varato la sua finanziaria, sbloccando l´equivalente di 45 miliardi di euro solo per strade, ponti, scuole. Questi soldi hanno subito messo a tacere gli scontenti, frantumato ogni velleità secessionista della Cirenaica. «Per decenni la famiglia del Colonnello ha intascato l´80 per cento dei proventi del gas e del petrolio, investendo per se stessa in Sudafrica, Indonesia, Cina e Malesia, o acquistando altre armi da stipare nei numerosissimi depositi sparsi nel Paese.
Ora, con una più equa ridistribuzione delle ricchezze, la Libia può davvero diventare il Qatar del Mediterraneo», dice in buon italiano l´ingegnere Faiek El Senussi, che dirige la Mezza Luna rossa a Bengasi. «Sì, siamo ancora ebbri di libertà perché se fino all´anno scorso nella migliore delle ipotesi avremmo visto uno dei figli di Gheddafi prendere il suo posto, pochi giorni fa abbiamo addirittura votato», aggiunge, mostrando con fierezza l´indice ancora sporco d´inchiostro.
Prima delle elezioni generali previste per l´inizio di luglio, in cui 3 milioni di libici saranno chiamati a scegliere i 200 membri della loro Assemblea nazionale, in città come Bengasi e Misurata ci sono state, con le municipali, le prove generali del voto nazionale. Tutto s´è svolto nell´ordine, nella calma, e perfino nella gioia: per la maggior parte degli elettori è stato il primo voto della loro vita.
Ma la Libia del dopo Gheddafi è afflitta da altri problemi. C´è anzitutto quello degli sfollati, che sono ovunque, e che provengono dalle città distrutte dalla guerra: Sirte, Ajdabjia, Tawargha. A Misurata un censimento ha rivelato che 6000 abitazioni sono state colpite dai cannoni di Gheddafi, mentre la metà di quelle di Sirte è stata bombardata sia dalla Nato sia dalle milizie rivoluzionarie. C´è poi il problema del confine meridionale del Paese, porta d´ingresso per gli immigrati di tutto il Sahel perché incontrollabile, e attraverso il quale la Libia contrabbanda carburante e armi verso Ciad e Sudan. E´ lungo quel confine che negli ultimi mesi ci sono stati gli scontri tribali più sanguinosi, provocati dall´anarchia di una terra senza più padrone. Il mese scorso, in poche ore si sono contati un centinaio di morti.
Eppure si ha l´impressione che i libici hanno già cominciato a costruire il loro futuro. Dice ancora El Senussi: «La grande sorpresa sono i giovani. Sotto Gheddafi sognavano tutti di abbandonare il Paese, ma quando è partita la nostra "primavera", essi hanno imbracciato una bandiera che non conoscevano neanche, e creduto a un´idea di patria». Già , tra poche settimane, il Consiglio nazionale di transizione si farà da parte, e la nuova Assemblea nazionale nominerà sessanta saggi il cui compito sarà di scrivere la prima Costituzione libica. Un miracolo.
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