RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
1. SERGIO RAMELLI
Walter Veltroni per il ''Corriere della Sera''
Di storie come quella che sto per raccontare ce ne sono state molte, troppe, quando eravamo ragazzi. Vale la pena usare la memoria, non solo per un giorno, oggi che vediamo l’odio riemergere sui muri delle case di deportate morte da tempo e impazzare incontrollato su schermi tecnologici e moderni.
Bisognerebbe scrivere l’antologia di Spoon River di quegli anni balordi e bastardi. Sono tanti, i ragazzi che non ci sono più. Potevano avere una divisa addosso, potevano essere di destra, potevano essere di sinistra. «Tutti, tutti dormono sulla collina».
Ho raccontato su queste colonne la storia di Mario Amato — magistrato coraggioso o forse solo magistrato — che fu ucciso da un commando di giovani fascisti. Ho scritto di Carlo Castellano, dirigente dell’Ansaldo iscritto al Pci, la cui vita è stata segnata dai colpi di pistola sparati da giovani che tirarono il grilletto sulle sue gambe in «nome del proletariato». Oggi voglio parlare di Sergio Ramelli, un ragazzo con i capelli lunghi che fu aggredito a Milano la mattina del 13 marzo del 1975 a colpi di chiave inglese e morì il 29 di aprile.
Ma bisogna fare un passo indietro. Questo ragazzo, in niente dissimile fisicamente dai suoi coetanei di sinistra, ha idee di destra. Pier Paolo Pasolini, a smentire una diversità quasi antropologica, aveva scritto in una lettera a Italo Calvino: «Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui, dal suo corpo, dal suo comportamento e dalla sua ideologia inconscia e reale (l’edonismo consumistico) un giovane fascista non può essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale».
Sergio non si distingue «da tutti gli altri giovani» ma ha idee di destra e non le nasconde. Non è, racconta chi lo ha conosciuto, un fanatico. Da poco ha aderito al Fronte della Gioventù. Ma è capitato in una scuola dove le sue idee non sono tollerate. Tutto comincia con un compito in classe. Il professore chiede ai ragazzi di descrivere un episodio che li abbia impressionati. E Sergio scrive un tema sul primo assassinio delle Brigate Rosse, quello compiuto a Padova nel 1974, in cui dei terroristi erano entrati in una sede del Msi e avevano ucciso a freddo Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Quel tema fu l’inizio della sua fine. I suoi compagni ne vennero a conoscenza e i membri del collettivo politico di Avanguardia Operaia affissero i fogli di carta protocollo al muro sottolineandone le frasi e commentandolo con la scritta: «Ecco il tema di un fascista».
Comincia così il calvario di Sergio nella sua scuola. Lascio il racconto dei vari momenti a Luca Telese che, con il suo «Cuori neri», ha provveduto a integrare la memoria di quegli anni orrendi. «Una mattina del gennaio 1975, i ragazzi del collettivo extraparlamentare del Molinari entrano nella classe di Sergio. Interrompono la lezione, zittiscono le flebili resistenze del professore, prelevano Ramelli dal suo banco e lo trascinano fuori. Nessuno si azzarda a fermarli. In corridoio inizia un processo sommario: sputi in faccia, insulti: “fascista, vergognati!”. Poi, quando lo lasciano andare, una minaccia: “Con te abbiamo appena iniziato, Ramelli...”».
È la mattina del 13 gennaio 1975, Sergio sta uscendo da scuola, con lo zaino dei libri in spalla. Basta solo un segnale che subito viene raggiunto da un gruppo di ragazzi, molti dei quali, più grandi di lui, non frequentano nemmeno la sua scuola. Dieci anni più tardi i testimoni di quel giorno ricostruiranno l’accaduto davanti ai magistrati, ma allora nessuno aiuta il ragazzo. Sergio viene fermato, spintonato, costretto a impugnare un pennello. Viene — si legge nell’ordinanza di rinvio a giudizio — «circondato in strada da circa ottanta studenti e costretto a cancellare con la vernice bianca scritte fasciste comparse sul muro dell’Istituto...». Racconta la madre Anita Ramelli: «Tornò a casa tutto sporco, ma a me disse solamente: “C’erano delle scritte e hanno voluto che le cancellassi”. Non voleva allarmarci, metterci in apprensione...».
La giornata più drammatica, nel corso della lunga persecuzione che prepara il delitto, è quella del 3 febbraio 1975. Dopo molte discussioni, papà e mamma Ramelli hanno deciso di imporre al figlio di abbandonare il Molinari. A malincuore Sergio è costretto ad accettare, e quella mattina entra a scuola accompagnato dal padre per sbrigare le necessarie pratiche burocratiche. Purtroppo li stanno aspettando: nel corridoio della scuola padre e figlio sono aggrediti, picchiati e costretti a passare fra due file di studenti per un violento rituale di sottomissione. Sembra la scena di un film di Kubrick, sembra un’arancia meccanica in salsa meneghina, e ancora una volta bisogna lasciare la parola ai magistrati Grigo e Salvini per sapere come si conclude questa terrificante passeggiata: «Il ragazzo era stato colpito ed era svenuto, mentre lo stesso preside [sic] e i professori che avevano scortato il Ramelli e il padre verso l’uscita erano stati malmenati. Ancora più sconcertante la testimonianza del professor Melitton, secondo cui la preside aggredì il padre e gli disse: “Ma non vede che lei e suo figlio siete un motivo di turbamento per la scuola?”».
Un suo amico di infanzia, Alfredo, mi parla di Sergio. «Siamo cresciuti giocando a calcio insieme all’oratorio. Poi abbiamo scelto due scuole diverse. Giravamo con la moto, ne comprammo persino una a metà. Non eravamo di destra, ma non eravamo di sinistra. E tanto bastava a etichettarci come fascisti. Lui era uno serio, deciso, non uno che tirava indietro la gamba, neanche al calcio. Altrimenti non avrebbe resistito a tutto quello che gli hanno fatto a scuola. Si sentiva isolato, accerchiato, uno contro mille. Cambiò istituto. Ma non bastò. Pochi giorni prima che lo aggredissero eravamo andati insieme al cinema Corso per vedere Chinatown di Polanski».
Sono giorni orribili, a Milano. La città è l’epicentro della strategia della tensione, definizione non impropria. Tutto comincia non con Piazza Fontana, ma con la morte dell’agente Annarumma, nel novembre del 1969, ucciso durante scontri tra manifestanti marxisti-leninisti e polizia. Siamo nel pieno dell’autunno caldo. Che diventerà presto inverno.
Il giorno dei funerali la città partecipa tutta intera. La tensione è alle stelle. La destra cavalca il dolore e l’indignazione. Un giovane con un fazzoletto rosso al collo si avvicina alla bara e la folla, nella quale ci sono molti neofascisti, lo aggredisce. Viene salvato a stento dalla polizia. Scrive la cronaca del Corriere della Sera: «Al salvataggio hanno contribuito l’onorevole Bettino Craxi, il sindacalista Giulio Polotti e Mario Aniasi, fratello del sindaco che si trovavano in quel punto. Poco lontano è avvenuto l’episodio di Capanna...». Mario Capanna viene aggredito e picchiato dai fascisti. C’è una foto che racconta quegli anni folli. Il commissario Calabresi — che un mese dopo si troverà al centro della vicenda Pinelli e al culmine di un’odiosa campagna denigratoria sarà ucciso vigliaccamente davanti alla sua 500 — accompagna Capanna, dopo averlo salvato dal linciaggio. A Milano, esattamente un anno dopo Piazza Fontana, ci sarà la morte, di nuovo durante scontri con la polizia, dello studente ventitreenne di sinistra Saverio Saltarelli. La sua morte verrà raccontata dolorosamente da una canzone di Virgilio Savona, raffinato intellettuale che guidava, gramscianamente, il popolare Quartetto Cetra. Poi moriranno Roberto Franceschi, e tanti altri. Ragazzi di destra e di sinistra. Sono anni di sangue, a Milano.
Achille Serra, che allora lavorava alla mobile, ricorda lo strano attentato alla Questura, nel 1973. Era il giorno della visita di Mariano Rumor, allora ministro dell’Interno. La bomba fu lanciata da Gianfranco Bertoli, un singolare anarchico. «Un anarchico di destra, un tipo fragile, al quale fu messa in mano da qualcuno la bomba da tirare», dice Serra. La Commissione stragi indagò sul suo caso «confermando la presenza di Bertoli tra coloro che furono inseriti, pur se con esito negativo, nella struttura di Gladio». Tempi bavosi, altro che nostalgia...
Il sangue continuerà a scorrere, in quegli anni milanesi. Ignazio La Russa, che è stato avvocato della famiglia Ramelli, racconta come tutto, per la destra, cambia con la morte dell’agente Marino, quando due esponenti neofascisti gettano bombe a mano contro la polizia. Fino a quel punto, dice La Russa, «avevamo un rapporto privilegiato con le forze dell’ordine. Quella follia cambiò tutto».
Sergio Ramelli, con il suo Ciao e i suoi capelli lunghi, torna a casa, quel giorno di marzo del 1975. Lo aggrediscono in due, ma molti altri sono nei dintorni. Lo colpiscono con delle chiavi inglesi al capo, con violenza, ripetutamente. Nel libro di Giraudo e altri, pubblicato da Sperling, Sergio Ramelli una storia che fa ancora paura è riportato un articolo de la Notte che descrive quei momenti: «Sergio Ramelli si è accasciato al suolo, ma gli aggressori, trasformando il pestaggio in vero linciaggio hanno continuato a infierire, mentre il volto si copriva di sangue, che usciva abbondantemente da una ferita al capo». Morirà dopo 47 giorni di agonia. I responsabili sono dei giovani del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia. Poco dopo, non turbato dagli accadimenti, lo stesso commando diede fuoco a un bar «di destra» bruciandolo e rendendo invalido un ragazzo. Scriveranno dieci anni dopo alla madre: «Non avevamo nulla di personale contro suo figlio, non lo avevamo conosciuto né visto; ma, come troppo spesso accadeva in quel periodo, il fatto di pensare in modi diversi, automaticamente diventava causa di violenza gratuita e ingiustificabile. Nessuno di noi però aveva l’intenzione e neppure il semplice sospetto che tutto potesse finire in modo così terribile. Oggi riteniamo profondamente sbagliato, anzi inconcepibile il dirimere le differenze tra i diversi modi di pensare con la pratica della violenza». E oggi, diventati padri, sono certo lo pensino davvero.
La violenza nei confronti di Sergio è proseguita incredibilmente anche dopo la sua morte. Hanno continuato a fare scritte di minaccia al fratello, a devastare la vita di quella famiglia con quotidiane telefonate anonime, a minacciare il padre. Una vera persecuzione. Bisognava essere dei fanatici, o delle belve, per non avere neanche rispetto del dolore che straziava la famiglia Ramelli. Quel dolore che oggi indossa, con composta discrezione, la sorella, che allora aveva otto anni. Storie analoghe potrebbero raccontare le famiglie di tanti ragazzi di sinistra uccisi a coltellate o a colpi d’arma da fuoco, in tante parti d’Italia. Sono stati tanti, troppi.
walter veltroni e pif foto di bacco
Il magistrato Guido Salvini che, assieme al collega Maurizio Grigo, condusse le indagini dice oggi: «Non era terrorismo, era violenza politica. Scoprimmo gli autori dieci anni dopo. Durante l’indagine avvertimmo un senso di isolamento, come se certi ambienti della borghesia milanese non vedessero di buon occhio il fatto che si riaprisse quel capitolo. Fummo come accusati di processare il Sessantotto. I ragazzi, diventati grandi, erano professionisti, qualcuno aveva figli. Crollarono subito e confessarono. Ci colpì che non fosse un gruppo terroristico, ma un servizio d’ordine della facoltà di medicina, i cui membri non potevano non sapere cosa significhi colpire alla testa un ragazzo con una chiave inglese da due chili. Loro non lo conoscevano, Ramelli. Agirono sulla base di una foto che gli fu fornita dal comitato interno al Molinari. Non credo volessero uccidere, ma quello è stato l’esito. Poi alcuni proseguirono con altre aggressioni e con le schedature degli avversari politici. Cosa che veniva considerata quasi normale, da una parte e dall’altra, in quei tempi. Mi colpì che negli anni successivi, nei cortei, si rivendicasse con gli slogan quella morte. La morte di un ragazzo che affiggeva i manifesti del Fronte della Gioventù, ma non aveva mai fatto male a nessuno».
Nel processo, che si concluse con serie condanne, ci fu anche un sipario comico.
Dai verbali delle dichiarazioni di uno dei responsabili: «Bisogna ricordare che allora avevamo paura di un colpo di Stato. Ricordo che una mattina un mio compagno di classe mi aveva chiamato agitatissimo per dirmi: “Marco, guarda che ci sono i carri armati per le strade”. Scoprimmo poi che era la sfilata del 4 novembre».
Presidente: «Ma a scuola non vi avevano detto che il 4 novembre era la festa nazionale?».
La risposta fu: «All’epoca leggevamo più i testi del marxismo che i testi scolastici».
La Russa racconta che quando Sergio arrivò al Fronte della Gioventù, in quegli anni di scarsa affluenza, lo guardarono con sospetto. Per i capelli, per l’aria moderata, per il carattere introverso, timido. Quando si iscrisse chiese di «non ricevere la posta a casa». Erano anni duri, a destra e a sinistra. Anni di ambiguità, di distinguo pelosi e viscidi, di appelli pubblici firmati per pigrizia o per ignavia. L’Avanti — siamo prima di Craxi, non dopo — scrive un commento in cui dice: «Ramelli era noto all’ufficio politico della questura di Milano per affissione abusiva di manifesti del cosiddetto Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del Msi. La morte di Sergio Ramelli ripropone una serie di gravi problemi, innanzitutto alla polizia e alla magistratura. Infatti, il permanere di episodi di violenza privata e di vendetta ha la sua radice nella mancata eliminazione dei gruppi squadristi che, instaurando un clima di sopraffazione a colpi di rivoltella, innescano una spirale di violenza pericolosissima, prevista e sapientemente calcolata dagli artefici della strategia della tensione più volte denunciata dalle forze della sinistra».
L’Unità, per la penna di Claudio Petruccioli, prende una posizione ben più netta: «Nelle sprangate che lo hanno lasciato morente sul marciapiede di Via Amedeo non vi era né volontà di riscatto né amore per la libertà. In quei colpi vi era solo una violenza cieca e compiaciuta, tutta individuale, che ad altro non mirava se non a riprodurre se stessa in una spirale senza fine: tale da suscitare orrore e repulsione in ogni sincero democratico, in ogni uomo onesto».
La violenza ottusa porterà nei giorni dopo a una sequenza di morti. Ragazzi di sinistra e di destra, ancora. Esistevano piazze, scuole, quartieri, cinema nei quali un ragazzo di destra o sinistra non poteva entrare. C’erano cappotti o occhiali che non si potevano portare. C’erano giornali che non si potevano leggere. È stato il tempo dei nostri muri. E della follia della violenza tra ragazzi.
Uno dei momenti più belli della mia vita fu quando ero sindaco di Roma e, in una manifestazione pubblica, si abbracciarono Giampaolo Mattei — fratello dei due ragazzi di Primavalle figli del segretario di una sezione del Msi bruciati vivi da militanti di Potere Operaio che non hanno fatto carcere — e Carla Verbano, mamma di Valerio, che ascoltò, legata e imbavagliata col marito, i suoni della morte di suo figlio, un ragazzo dell’area dell’autonomia al quale dei killer fascisti, mai trovati, spararono alla schiena nel salotto di casa.
I morti di quegli anni non devono oggi essere rivendicati, scagliati, usati per protrarre l’odio.
Il conflitto, in una democrazia, è vitale. Anche il più duro. Senza conflitto non c’è libertà. Ma l’odio è una patologia. E quegli anni sono stati un’epidemia di questo male.
Non ci sono state morti giuste e ingiuste. Solo morti di innocenti. Anche in Italia è esistito un muro, invisibile. E i muri conducono, prima o poi, alla violenza. La madre di Ramelli ha raccontato: «Il giorno dopo la morte di Sergio venne un prete che aveva fatto il partigiano. Se ne stava con il suo fazzoletto blu dei Volontari della libertà, ad osservare qua sotto dove c’erano i fiori, i ragazzi, le foto di Sergio e scuoteva la testa. All’obitorio era presente per benedire la bara, e la volle seguire anche in chiesa il giorno del funerale. Quando la polizia glielo vietò si mise a gridare: “Non ho liberato l’Italia per vedere queste porcherie”».
Pasolini, che verrà ucciso nel novembre di quell’anno, a proposito dei ragazzi di destra aveva scritto: «Essi non sono i fatali predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno — quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità — ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È un’atroce forma di disperazione e di nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso».
Perché avete scelto proprio Ramelli? È la domanda che il giudice rivolge a uno dei responsabili dell’assassinio, nel processo del 1987. La risposta è agghiacciante: «Non esiste una risposta precisa. Ramelli per noi era un ragazzo del Fronte della Gioventù e in quel periodo rappresentava, o meglio era quello contro cui combattevamo, la destra, i neofascisti portatori di interessi politici ed economici di una classe contro la quale avevamo molto da ridire per il suo discorso antipopolare».
Quel ragazzo col Ciao «rappresentava interessi politici ed economici di una classe»?
E i ragazzi di sinistra uccisi erano, a loro volta, simboli del leninismo?
No, quelle violenze erano «porcherie», solo porcherie, che hanno rovinato la vita a un Paese intero. E hanno impedito di vivere a ragazzi che avevano delle idee che forse avrebbero cambiato, o forse no, nel corso di una vita in cui si sarebbero innamorati, forse sposati, forse avrebbero messo al mondo dei figli.
Sergio e gli altri, divisi sanguinosamente in vita, devono oggi essere uniti nella memoria collettiva.
Uniti, almeno sulla collina.
Lontani dagli sciagurati che, in pianura, non erano capaci di capire e vivere la legittimità e la bellezza dell’altro da sé.
2. I CUORI NERISSIMI DI WALTER VELTRONI
Christian Raimo per https://jacobinitalia.it/
Ieri sul Corriere della sera Walter Veltroni, ex segretario della Fgci, ex militante del Pci, ex sindaco di Roma, ex segretario del Pd, ex ministro della cultura, ha scritto un lungo articolo su Sergio Ramelli, un giovanissimo militante neofascista massacrato barbaramente nel 1975 in un agguato, e morto dopo più di un mese di agonia.
La storia di Ramelli è nota a chiunque conosca un po’ delle vicende politiche degli ultimi quarant’anni italiani. Ramelli dal suo funerale è diventato, anche suo malgrado, un’icona del neofascismo: la sua storia è quella di un camerata martire, al quale ogni anno a Milano migliaia di militanti di CasaPound, Forza Nuova, Fratelli D’Italia, Lealtà e Azione, eccetera, vanno a rendere omaggio, con il saluto romano e il «Presente!» urlato tre volte.
Perché Ramelli sia diventato l’icona delle destre non è difficile da spiegare anche se occorre onestà intellettuale e amore per la complessità, ossia un approccio storico, per non sminuire il riconoscimento e lo sdegno per la brutalità dell’agguato senza astrarre e destoricizzare l’accaduto. Veltroni fa il contrario: apre il suo pezzo con un preambolo intellettualmente disonesto e tossico.
«Di storie come quella che sto per raccontare ce ne sono state molte, troppe, quando eravamo ragazzi. Vale la pena usare la memoria, non solo per un giorno, oggi che vediamo l’odio riemergere sui muri delle case di deportate morte da tempo e impazzare incontrollato su schermi tecnologici e moderni».
In un solo paragrafo, mettendo insieme in un unico minestrone indigesto il riemergere terribile dell’antisemitismo e del negazionismo, le storie diversissime di violenza degli anni Settanta e un giudizio paternalista contro le tecnologie moderne, squalifica da subito il suo approccio.
«Bisognerebbe scrivere l’antologia di Spoon River di quegli anni balordi e bastardi. Sono tanti, i ragazzi che non ci sono più. Potevano avere una divisa addosso, potevano essere di destra, potevano essere di sinistra. ‘Tutti, tutti dormono sulla collina’».
È chiaro quale sia l’intento che da anni persegue Veltroni: togliere dal dibattito storico l’analisi degli avvenimenti, e relegarli a una dimensione astratta, velenosamente mielosa, astorica e vischiosamente memorialistica, omologante, in cui esistono solo le vittime, tutte uguali e confuse, umiliante persino per i famigliari che vogliono preservarne la memoria.
Non è nemmeno il caso di scomodare René Girard, Giovanni De Luna, Daniele Giglioli, Slavoj Zizek, Richard Sennett, Annette Wieviorka e tutti quelli che hanno ragionato su come lo statuto della vittima abbia invaso il dibattito pubblico e persino la storia. Quello che fa Veltroni è molto più grossolano e scorretto. Sergio Ramelli viene ridotto a una figurina che non è mai stata né in vita né in morte: uno come tanti altri.
«Questo ragazzo, in niente dissimile fisicamente dai suoi coetanei di sinistra, ha idee di destra. Pier Paolo Pasolini, a smentire una diversità quasi antropologica, aveva scritto in una lettera a Italo Calvino: ‘Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui, dal suo corpo, dal suo comportamento e dalla sua ideologia inconscia e reale (l’edonismo consumistico) un giovane fascista non può essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale’».
Il Pasolini che usa Veltroni, quello per cui fascismo e antifascismo sarebbero uguali, e per cui il nemico è la modernità, è una caricatura revisionista di comodo accesso a una lettura superficiale del recente libercolo Il fascismo degli antifascisti (Garzanti) (Qui c’è un pezzo di Wu Ming 1 che ricostruisce bene il disgusto per il fascismo e la militanza antifascista di Pasolini). Sergio Ramelli è un ragazzo che ha idee fasciste, confuse, ingenue, come possono essere quando si è solo dei liceali chiaramente. Ha cominciato a costruirsi un’ideologia e un impegno politico da giovanissimo, e a esporsi. In nome di questa esposizione, verrà preso come bersaglio e ucciso.
La sua storia non assomiglia a quella di altri perché ha i capelli lunghi, e perché rossi e neri sono tutti uguali, ma perché per come tutta la sua generazione la politica è ovunque. E la violenza politica fa parte della militanza. Tutto questo ha chiaramente un impatto drammatico, dolorosissimo per milioni di persone. Ma immaginare di leggere quegli anni senza la consapevolezza di un’età trasfigurata dalla militanza anche violenta, dimenticare che c’erano milioni di persone che pensavano di poter trasformare la realtà attraverso una rivoluzione (accadeva in altri paesi) o di difendersi dalla violenza dello Stato (era un’ipotesi che in altri paesi – di fatto tutto il mondo mediterraneo e latino – portava a dittature feroci) vuol dire, ancora, essere scorretti se non dei revisionisti. Comprendere in modo complesso la storia non vuol dire giustificare o rivendicare i suoi momenti più brutali: vuol dire chiamare le cose con il proprio nome, lasciare ai protagonisti della storia le responsabilità e le scelte, ricostruendone la genesi e l’evoluzione.
Ramelli, scrive Veltroni facendosi scudo delle parole di un amico d’infanzia, «non era né di destra né di sinistra, e tanto bastava a etichettarlo come fascista». Anche qui è chiaro come, persino dando corda a quello che è un revisionismo amicale, chiamiamolo così, ciò che passava per la testa a un ragazzo di diciott’anni contasse e conti poco per la storia. Ramelli, che era un militante neofascista, è diventato un martire neofascista, anche ovviamente malgrado sé. Come ricostruisce Elia Rosati sul n. 42 della rivista Zapruder, i funerali di Ramelli furono la prima occasione per una strategia mitopoietica molto consapevole nel Movimento sociale italiano e nella destra neofascista tutta:
«Tra il 1968 ed il 1976 il neofascismo italiano si trovò a vivere un periodo intensissimo, in primis il Movimento sociale: tra fermenti neosquadristi, strategia della tensione, scontri di piazza, grandi successi/tonfi elettorali e un’infruttuosa lotta con i liberali di Malagodi e Bignardi per diventare l’unico partito d’ordine alla destra della Dc. Giorgio Almirante – segretario ininterrottamente dal 1969 al 1986 – provò a gestire questa fase, sfruttando con spregiudicatezza tutte le carte in suo possesso, in primis le piazze, con il perenne problema di governare emotivamente le varie fazioni interne al suo mondo, anche costruendo un nuovo capitolo dell’altra-memoria. […]
L’occasione con cui sperimentare la propria narrazione storica si concretizza il 5 maggio 1975, durante il funerale per la morte di Sergio Ramelli, il futuro cuore nero ufficiale del partito. La vicenda – oggettivamente tragica – venne presentata come un caso storico paradigmatico: chiaro il movente e il colpevole – l’antifascismo militante – incorruttibile e pura la figura della vittima – giovanissima, sconosciuta alle cronache, perseguitata a scuola dalla sinistra extraparlamentare, colpita di notte sotto casa e lasciata lì semimorente».
L’operazione mitopoietica è selettiva e strumentale. I Cuori neri, come li chiamerà Luca Telese in un fortunato e velenosissimo libro anni dopo, sono giovani e vittime, a volte nemmeno dichiaratamente militanti, spesso hanno frequentato per qualche mese le sezioni del Fronte della gioventù, uccisi in agguati brutali, a cui vengono dedicate le sezioni neofascisti dagli anni Settanta fino a oggi; non più i militanti missini o di altre formazioni come Avanguardia Nazionale o Terza Posizione, morti in degli scontri con altri militanti di sinistra. I ragazzi, i giovanissimi, vengono cameratizzati soprattutto a cadavere caldo.
I militanti di destra alla commemorazione di Sergio Ramelli nell aprile del 2014
Il Movimento sociale italiano a guida Almirante si rende conto che ha bisogno di eroi, e sfrutta – scrive ancora Elia Rosati – il massacro di giovanissimi per costruire una narrazione metastorica «secondo la quale: la violenza politica dei lunghi anni Settanta aveva trovato nell’uccidere un fascista non è reato il suo filo rosso; cominciando dai missini padovani morti nella sede del partito – in seguito a un’azione delle Brigate rosse – fino a quello che è considerato a destra come l’ultimo strascico violento degli anni Settanta, la morte di Di Nella».
Veltroni avvalora in tutto e per tutto, anzi corrobora questa narrazione che s’inaugura proprio al funerale di Ramelli. Lo scenario storico che ricostruisce Veltroni è questo:
«Sono giorni orribili, a Milano. La città è l’epicentro della strategia della tensione, definizione non impropria. Tutto comincia non con Piazza Fontana, ma con la morte dell’agente Annarumma, nel novembre del 1969, ucciso durante scontri tra manifestanti marxisti-leninisti e polizia. Siamo nel pieno dell’autunno caldo. Che diventerà presto inverno. Il giorno dei funerali la città partecipa tutta intera. La tensione è alle stelle. La destra cavalca il dolore e l’indignazione. Un giovane con un fazzoletto rosso al collo si avvicina alla bara e la folla, nella quale ci sono molti neofascisti, lo aggredisce. Viene salvato a stento dalla polizia. Scrive la cronaca del Corriere della Sera: ‘Al salvataggio hanno contribuito l’onorevole Bettino Craxi, il sindacalista Giulio Polotti e Mario Aniasi, fratello del sindaco che si trovavano in quel punto. Poco lontano è avvenuto l’episodio di Capanna…’.
Mario Capanna viene aggredito e picchiato dai fascisti. C’è una foto che racconta quegli anni folli. Il commissario Calabresi — che un mese dopo si troverà al centro della vicenda Pinelli e al culmine di un’odiosa campagna denigratoria sarà ucciso vigliaccamente davanti alla sua 500 — accompagna Capanna, dopo averlo salvato dal linciaggio. A Milano, esattamente un anno dopo Piazza Fontana, ci sarà la morte, di nuovo durante scontri con la polizia, dello studente ventitreenne di sinistra Saverio Saltarelli. La sua morte verrà raccontata dolorosamente da una canzone di Virgilio Savona, raffinato intellettuale che guidava, gramscianamente, il popolare Quartetto Cetra. Poi moriranno Roberto Franceschi, e tanti altri. Ragazzi di destra e di sinistra. Sono anni di sangue, a Milano».
Letto così è tutto un grande papocchio, scritto male, astorico, incomprensibile, confuso, colpevolmente sciatto, in cui tutti aggrediscono tutti, manifestano non si sa perché, si sparano a casaccio. Proviamo invece a concentrarci sul contesto neofascista per comprendere qualcosa.
Il Movimento sociale italiano fino al 1973, Elia Rosati lo ricostruisce bene, è il partito dell’ordine, sta tentando un maquillage che lo affranchi dalla storia mussoliniana, un affiancamento alla Dc e ai liberali in parlamento, già nelle elezioni precedenti del 1972, in nome di un atlantismo che paga, almeno sembra, in termini di consensi elettorali. Ma molti giovani militanti non hanno nessuna simpatia né per l’idea di partito dell’ordine, né per quella di fare da sostegno alla Dc andreottiana, né per l’atlantismo.
«Infatti il 12 aprile del 1973 a Milano una manifestazione nazionale del Msi, vietata e poi disconosciuta dal partito stesso, degenerò in forti scontri che tennero in ostaggio la parte nord est del centro cittadino per diverse ore. Durante gli incidenti di piazza alcuni sanbabilini uccisero con una bomba a mano l’agente di Ps Antonio Marino: nel giro di pochi istanti tutta la campagna missina per presentarsi come partito d’ordine crollò; in una manifestazione del Msi era stato ucciso un poliziotto. Fu così che la vicenda tragica di Sergio Ramelli, deceduto in seguito ai traumi ricevuti dopo un’agonia di quarantotto giorni (il 29 aprile 1975), offrì la cinica occasione per un riscatto mediatico e storico».
In mezzo, non dimentichiamolo, c’è anche la strage di Brescia, 1974, che mostra in modo plateale la contiguità tra eversione neofascista e apparati dello Stato. Questa svolta decisiva viene ridotta da Veltroni a quattro elusive righe:
«Ignazio La Russa, che è stato avvocato della famiglia Ramelli, racconta come tutto, per la destra, cambia con la morte dell’agente Marino, quando due esponenti neofascisti gettano bombe a mano contro la polizia. Fino a quel punto, dice La Russa, ‘avevamo un rapporto privilegiato con le forze dell’ordine. Quella follia cambiò tutto’».
Attraverso la morte di Ramelli, come di altri, da Francesco Cecchin (18 anni) e Paolo Di Nella (20 anni), e attraverso soprattutto il processo nel 1987, in una fase storica completamente mutata, l’Msi trova una specie di rigenerazione. Invece di essere un partito che guarda ai colonnelli e al franchismo, sembra essere un capro espiatorio, e s’imbelletta da forza democratica: proprio quella narrazione che servirà a Gianfranco Fini, a Gianni Alemanno, a Giorgia Meloni, per provare a piegare l’antifascismo a violenza ingiustificata, e a presentare il neofascismo in un alveo democratico. Non a caso i primi a ringraziare Veltroni del suo articolo sono proprio Gianni Alemanno, Giorgia Meloni e Il Secolo d’Italia.
Ma da quando, nel 2008, Gianfranco Fini esce definitivamente dall’agone politico, la storia cambia completamente: i movimenti neofascisti, CasaPound in primis (sulla scorta ideologica di Terza Posizione, e quindi anche di una distanza storica dal Movimento sociale italiano) rivendicano la violenza, lo squadrismo, l’arditisimo, e Sergio Ramelli è uno dei morti con cui si cammina insieme, come i martiri di Acca Larentia a Roma, come tutto il pantheon di martiri degli anni Settanta e Ottanta.
Tutto questo piano storico e politico insieme, Veltroni non lo riconosce o non lo contempla o colpevolmente lo elide. Così finisce il suo articolo:
«Sergio e gli altri, divisi sanguinosamente in vita, devono oggi essere uniti nella memoria collettiva. Uniti, almeno sulla collina. Lontani dagli sciagurati che, in pianura, non erano capaci di capire e vivere la legittimità e la bellezza dell’altro da sé».
Quando era sindaco di Roma, Veltroni ha dedicato molta dell’odonomastica romana ai morti giovani di quegli anni, a quella che vorrebbe fosse un’unica Spoon River. A Villa Chigi per esempio, fece apporre una targa con scritto Paolo Di Nella, 1963-1983, vittima della violenza. Senza un aggettivo né una contestualizzazione storica. Come se in quegli anni fosse passato uno tsunami nelle piazze italiane. Paradossalmente c’è voluto il sindaco Gianni Alemanno per aggiungere Vittima della violenza politica.
Rimangono poi due questioni più cruciali. La prima riguarda la disgustosa associazione tra cuori neri e cuori rossi. Soprattutto in questi giorni in cui si commemora il quarantennale della morte (anche questo un massacro brutale) di Valerio Verbano. Verbano era un giovane antifascista e aveva raccolto un lungo dossier che mostrava i rapporti tra criminalità, eversione nera e forze dell’ordine, l’esatto patto letale che portò ad avere in Italia il rischio concreto di una deriva alla greca. Questa storia non è la stessa della militanza neofascista, non è nemmeno lontanamente assimilabile, come fa Veltroni nel suo articolo. Vogliamo davvero ridurre la conoscenza storica di quegli anni alla narrazione Telese-Veltroni?
La seconda riguarda il giudizio che dobbiamo dare come storici sulla violenza politica che fu tra i Settanta e gli Ottanta un fatto terribilmente drammatico e al tempo stesso di massa. È possibile farlo decontestualizzando la violenza, analizzandola a prescindere del contesto sociale, evitando di storicizzarla? Questa è una domanda vera, laica, aperta, per gli storici. Gli ultimi libri di Monica Galfré e di Miguel Gotor ne ragionano, con l’ovvia complessità, e il dolore che serve. Senza facili semplificazioni che fanno specie quando le fa un ex sindaco di Roma, e fanno ancora più specie quando si scrivono editoriali sul Corriere della sera.
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