1. IL BANANA NON È FUORI DAL PARLAMENTO: È DENTRO DI NOI. CHI HA VOTATO PER LA DECADENZA HA INCASSATO UNA VITTORIA POLITICA DOPO AVER PERSO SUL PIANO CULTURALE 2. GIOVANNI ORSINA: GLI AVVERSARI DEL CAINANO, SOPRATTUTTO NEL PD, SANNO CHE LA “VITTORIA” È SOLO APPARENTE AL PUNTO CHE TUTTI HANNO NEGATO CHE LA DECADENZA AVESSE VALORE POLITICO, PRESENTANDOLA COME UN MERO AUTOMATISMO 3. NELLA STORIA DEL BERLUSCONISMO CONTANO DI PIÙ UN PREVITI E UN BONDI, UN BRUNETTA E UNA PITONESSA OPPURE AVER INOCULATO SOTTO LA PELLE TRE CANALI A COLPI DI “DRIVE IN”, “BEAUTIFULL”, “DALLAS” FINO A “ZELIG” E “LE IENE” E “STRISCIA LA NOTIZIA”? 4. LA SOSTANZA DELLA NOSTRA ATTUALE “CULTURA” E’ INCARNATA PIÙ DAI PALINSESTI MEDIASET DEL NANO DI HARDCORE CHE DALLE MOZIONI DEI VARI MORO E BERLINGUER

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1. IL DEFICIT POLITICO DEL CAVALIERE
Giovanni Orsina per "La Stampa"

''Io non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me", Giorgio Gaber

Secondo ogni evidenza, Berlusconi sta vivendo questo tornante storico in una condizione di tormento psicologico reale e profondo. Di incredulità, quasi. Lo dimostrano le molte oscillazioni, a tratti la paralisi decisionale, degli ultimi quattro mesi. Lo dimostrano le incertezze su come trattare il Nuovo Centrodestra. Considerare gli alfaniani possibili futuri alleati secondo ragion politica o traditori secondo istinto.

E da ultimo, forse, lo dimostra pure la rinuncia a utilizzare il Senato prima, la trasmissione di Bruno Vespa poi, come tribune. E la decisione di ripiegare invece su una manifestazione di piazza. Poiché non si sta parlando di un uomo qualunque, a ogni modo, il tormento personale è portatore di informazioni politiche importanti: sul berlusconismo, sull'antiberlusconismo, e forse ancor di più su quel che resterà del nostro Paese dopo vent'anni di berlusconismo e antiberlusconismo.

La rabbia, la frustrazione e l'avvilimento del Cavaliere, innanzitutto, manifestano una delle tante ambiguità della sua avventura politica. Berlusconi è sempre stato, per lo meno in teoria, ecumenico: si è rivolto indistintamente a tutti gli uomini di buon senso e buona volontà, considerando le fratture politiche e ideologiche elementi di corruzione della naturale socievolezza umana. A questo ecumenismo si è ricollegato il desiderio non soltanto di essere accettato universalmente quale interlocutore legittimo, ma pure di veder riconosciuti il proprio ruolo nella storia imprenditoriale e politica d'Italia e la propria statura come uomo di governo.

Al contempo però - altro che ecumenismo - Berlusconi ha diviso eccome. In ampi strati della classe dirigente e della popolazione italiane ha generato un'ostilità profondissima, capace di andare ben oltre il semplice dissenso politico per trasformarsi in autentico disgusto etico ed estetico. E lui stesso si è applicato con grande successo alla costruzione di idoli polemici, nell'attaccare i quali non si è certo risparmiato: la sinistra, naturalmente; ma anche i politici di professione, l'establishment, le strutture pubbliche.

Proprio quell'establishment e quelle strutture dai quali, al contempo, desiderava vedersi riconosciuti legittimità e dignità di statista. Un bel paradosso. Che spiega le oscillazioni degli ultimi mesi, fra richieste informali di grazia e attacchi al Quirinale. E chiarisce per quale ragione il Cavaliere soffra così tanto l'espulsione da quelle istituzioni delle quali pur contesta la legittimità.

Ma nel tormento di Berlusconi c'è anche dell'altro. C'è la consapevolezza di come, per quanto il voto di ieri non segni la conclusione della sua avventura politica, l'antiberlusconismo si stia avviando a vincere la guerra ventennale contro il berlusconismo.

C'è la rabbia dovuta alla convinzione di aver perduto la partita non sul campo, ma per l'intromissione dell'arbitro. E c'è infine la frustrazione generata dal timore che - in un Paese di verità assai fragili come l'Italia - con la sconfitta vada perduta anche la possibilità di interpretare e raccontare la sconfitta. Di vedersi attribuito qualche merito, insomma. Di veder riconosciuta qualche ingiustizia subita.

Ora, che il berlusconismo stia finendo male, è fuori questione. Ma è pure lecito dubitare che il modo in cui finisce prometta granché bene per il futuro. Ieri si è consumato un atto di valore politico indubbio e altissimo: che cosa può mai esser più politico di un voto in Parlamento? E come non ritenere politiche le decisioni sui tempi, le forme, la costituzionalità del voto? Quell'atto politico, tuttavia, ha tratto la sua forza da una sentenza.

Chi ha votato in favore della decadenza ha perciò conseguito una vittoria politica di rilievo storico senza aver davvero vinto sul terreno politico - a tal punto che, soprattutto nel Partito democratico, si è spesso negato che la decadenza avesse valore politico, presentandola come un mero automatismo.

La commistione fra questioni giudiziarie e questioni politiche, un'anomalia che ha tormentato il nostro Paese fin dagli anni di Tangentopoli, non solo si perpetua, così, ma raggiunge il suo acme. E la politica, ancora una volta, si dimostra fragile, incerta di sé e della propria autonomia, incapace di presidiare e difendere i propri spazi.

Tanto più, infine, che al deficit politico dell'antiberlusconismo si accompagna quello del berlusconismo. E qui il Cavaliere dovrebbe rivolgere la propria frustrazione contro se stesso. Costantemente, ripetutamente, per anni, la parte berlusconiana ha mancato di affrontare il nodo-giustizia sul terreno politico, disperdendo energie e credibilità in provvedimenti dal palese carattere personale.

E ancora oggi, nel momento in cui prende la decisione personale e politica al contempo di togliere la fiducia al governo a motivo della decadenza (la legge di stabilità essendo palesemente un pretesto), manca di presentare al Paese un'alternativa politica realistica e credibile.

2. DA SUA EMITTENZA A CAIMANO E PAPI
Filippo Ceccarelli per "La Repubblica"

E all'inizio fu come un rombo di tuono, il fragore inaspettato di un aereo lassù nel cielo, a tutto motore, 130 decibel da fracassare i timpani ai poveri abitanti di Rovagnasco, Redecesio e Segrate.

Sono giusto quarant'anni, e fu quello il primo e numinoso manifestarsi di Silvio Berlusconi, «un certo Berlusconi di 34 anni» lo qualificò Giorgio Bocca, quel giovane costruttore
che con i suoi sistemi - già allora! - era riuscito nel miracolo di dirottare per sempre la bellezza di 270 voli da e per Linate, in tal modo salvaguardando la reclamizzatissima quiete degli abitanti dell'utopico quartiere satellite, Milano2, «la città del Sole».

Un monumento, per la verità abbastanza discreto, ricorda oggi la realizzazione della Edilnord, società partorita da una misteriosa finanziaria svizzera. Ma a pensarci bene c'era molto, anzi moltissimo di italiano nella brutale fantasia con cui anzitempo si inauguravano una storia, una forza e un'astuzia nate e comunque immediatamente affermatesi contro le regole.

Per cui Berlusconi ottenne di insediare quel prodigio di frastuono, scarico di combustibili sulla campagna e acrobazie aeree a 500 metri dal suolo facendo debitamente pesare che nella «sua» area era in costruzione l'ospedale San Gabriele, a sua volta fondato da quell'altro controverso visionario, don Verzè, pure lui destinato a finire male.

Qualche anno dopo Camilla Cederna descrisse tra «pelle, mogano e palissandro» quell'aitante palazzinaro «con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone».

Per l'aspetto curato, la gentilezza del tratto e la chiacchiera esplosiva, profetizzò che sarebbe piaciuto «a un organizzatore di festini e congressi». Ma intanto la Cederna riportò pure che per la fondazione di Milano 2, oltre a schermarsi dietro alla megalomania di don Verzè, la misteriosa Edilnord aveva sganciato ai partiti un sacco di soldi - più appartamenti arredati concessi in dono ad assessori e tecnici.

A chi crede che davvero Berlusconi sia rimasto vittima di una persecuzione per via della discesa in campo si consiglia vivamente la lettura di un libro di Michele De Lucia,
Al di sotto di ogni sospetto (Kaos), da domani in libreria, che con scrupolo a tratti persino pedante documenta come tale «persecuzione» sia cominciata, semmai, assai prima. In quasi 300 pagine si incontra una tale abbondanza di vicende, una così ricca congerie di spregiudicatezze, affarismi e conseguenti impicci giudiziari, tutti rigorosamente ante-marcia (1963-1993), da far pensare che la decadenza decretata ieri a Palazzo Madama era in fondo il più inesorabile di tutti i possibili esiti.

Vedi, ad esempio, la crudele impudenza con cui agguantò l'imminente «reggia» di Arcore; o l'ingenua e insieme furba spudoratezza con cui si mise in casa il futuro «eroe»Mangano, che pure gli piazzò una carica di tritolo in giardino. Non si ha idea, né forse più memoria, di che tipetto fosse Berlusconi prima di farsi statista e di essere poi condannato e infine decaduto. Vedi l'interesse che già alla metà degli anni 70 suscita in Mino Pecorelli e la facilità con cui entra in relazione e nella P2 di Gelli.

Non solo, ma per fare un favore ai dc finanzia la scissione del Msi; per aggirare la legge sulle tv approfitta dell'amicizia di Craxi; per stare più tranquillo si compra gli ufficiali della Guardia di Finanza che gli fanno le ispezioni; e sempre per i soldi, tanti soldi, troppi soldi, aguzza la fantasia, sfida il buonsenso, inventa l'inverosimile, insedia la tv commerciale, conquista l'immaginario, alimenta i consumi, ma intanto arruola prestanomi, traffica col parastato, fa affari con gente poco raccomandabile dalla Sicilia alla Sardegna, s'impossessa della Mondadori corrompendo giudici a destra e a manca.

Il libro di De Lucia ha giustamente in copertina un ritratto che più di ogni altro sintetizza l'uomo Berlusconi nella sua geniale, fantastica e sventurata quintessenza: il foto-ritratto che Alberto Roveri gli scattò nel 1977, capello lungo, sguardo intenso, espressione di ribalda indifferenza, gamba accavallata, occhiali da sole in mano e una rivoltella appoggiata sulla scrivania.

Tutto questo quindici anni prima di vendere agli elettori la rivoluzione liberale - e vabbè. Ma il dubbio resta: poteva un personaggio con tale grazioso passato e quell'arma da fuoco era, è vero, il tempo dei sequestri - comunque finire in un modo diverso da come è finito ieri?

Vero è che la storia è anche piena di filibustieri, e il mondo del potere di più. Di suo, Berlusconi vi recò in dote anche una specifica estetica, anch'essa molto italiana, sia pure nella variante bauscia e precocemente cinepanettonica, per cui - come da testimonianza del cognato - «Sua Emittenza» volle farsi nominare conte da qualche venditore di patacche araldiche, e per qualche tempo espose al muro quella specie di diploma.
Colpiva ieri, nel dibattito sulla decadenza, sentirlo chiamare «senatore» perché quel titolo ormai perduto in realtà gli stava stretto.

Presto infatti si comprese che «il Dottore», nonché il «Presidente» (del Milan), «il Cavaliere», «l'Unto del Signore», «il Caimano», «lo Psiconano », «il Banana», «il Pompetta», o «Papi Silvio » che fosse, in ogni caso aspirava a una sovranità di tipo monarchico, che puntualmente realizzò una volta arrivato a Palazzo Chigi, «con coreografia medicea», come la designò Dossetti. Un articolato sistema di adulatori, cuochi, guardie, musici, buffoni, servi, parassiti, ruffiani e cortigiane da nascondere e al tempo stesso da mettere in vetrina, e insomma il regno berlusconiano come una specie di sogno, per parecchi di natura incubatica.

La vicenda pubblica ha un andamento ad altalena. Nel 1994 Berlusconi prese l'Italia e subito la perse; nel 2001 la riconquistò e di nuovo gliela tolsero; dopo il Predellino, stravinte le elezioni del 2008, Libero pubblicò un fotomontaggio del famoso ritratto napoleonico di Ingres, «Sua Maestà il Cavaliere», ma questi venne pure acclamato nelle strade: «Santo subito!» - e non certo per spirito di modestia lui accettò il titolo, gli suonava anzi opportuno, se non dovuto, pur esprimendo allegre riserve sulla tempistica. La decadenza fa oggi giustizia di quegli scrupoli, ma il guaio è che questo drammatico processo non riguarda più solo lui, ma l'intero paese e un pezzo della vita di ogni italiano, arci o anti che si voglia considerare.

E adesso fa uno strano effetto, e addirittura un po' triste, «ricordarsi del tempo felice», almeno per Silvione e per i suoi devoti, «ne la miseria »: l'elogio della follia come risorsa da comizio, il cd di Apicella in dono a Bush, i cartelloni «Continua la luna di miele» sul fondale di Porta a porta, le copertine di Chi sul «Nonno Superman», i propositi di campare 120 anni, l'impegno a «vincere il cancro», i campi da golf a Lampedusa, la Finanziaria approvata in 12 minuti, Forza Italia sciolta in nove, i bigliettini alle due belle deputatesse Nunzia e Gabry (una lo tradirà), il trapianto di capelli imposto ad Alfano (e poi dice che si è ribellato), la nozione di «era berlusconiana» coniata da Quagliariello.

E sembra di rivederlo che con il casco da Mazinga coordina i soccorsi nelle rovine dell'Aquila, o con il fazzoletto da partigiano al collo sul palco di Onna, 25 aprile 2009, un secolo fa, all'azimut del consenso, da lui quantificato al 70,2 per cento, e due giorni dopo eccotelo alla festicciola di Noemi a Casoria.

Posto che con i se non si fa la storia, se non avesse esagerato, se non si fosse ingaglioffito, se le sue ossessioni non avessero preso il sopravvento, ecco, forse Berlusconi sarebbe ancora lì. Ma come succede, il suo destino era segnato fin dall'inizio. E in quell'impensabile rombo di tuono, in quel fragore nel bel cielo della Lombardia, c'era già la sventura invisibile, la fine di ogni inutile gloria.

 

 

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