Giorgio Gandola per “La Verità”
MANSOUR
Galleggiano ai margini del golfo dove la corrente le deposita come vuoti a perdere.
Sono le squadre di plastica, quelle costruite a tavolino o anche al circo, con il budget stellare come unico totem.
Il Manchester City ha raggiunto il Paris Saint Germain nel sacco giallo, dove vengono riciclati i relitti con caratteristiche simili: collezioni di giocatori forti e strapagati, nessun leader in campo, allenatori con smorfie da guru, storie recenti con un appeal da costruire, bacheche internazionali vuote. Ancora una volta gli sceicchi stanno a guardare.
mansour guardiola
In finale di Champions ci vanno Real Madrid e Liverpool (19 coppe dalle grandi orecchie in due) perché Karim Benzema, perché Momo Salah, perché Carlo Ancelotti, perché Jürgen Klopp, perché la dea bendata, perché la capacità di soffrire, perché «SurRealiste» come titola L'Équipe. Tutto già scritto e letto. Ma quest'anno ci vanno innanzitutto perché le grandi querce hanno radici profonde.
leonardo e Al Khelaifi
La sentenza del Bernabeu è storica: chi non ha carisma sulla maglia e senso di appartenenza sotto la pelle ripassi dopo gli esami di riparazione.
Il globalismo nel calcio è sempre qualcosa di volatile, quando non di sbilenco. Per due volte la legge della tradizione, dell'identità e di quell'energia che deriva dal passato hanno fatto premio sul plexiglas dei nuovi ricchi.
AL KHELAIFI 19
E per due volte sono stati i blancos - il club che più di ogni altro preserva e tramanda questi valori, riassunti dalla foto di Alfredo Di Stefano allo sbocco del tunnel - a bocciare la rivoluzione: prima mandando a casa i francesi freak, poi la multinazionale modaiola di Manchester. Sempre in rimonta, sempre con la «garra charrua» che al 90' non ti affossa nella stanchezza cosmica ma ti dà ancora la forza di ruggire in faccia al mondo.
florentino perez nasser al khelaifi 5
Nella pausa prima dei tempi supplementari della doppia sfida più vista e vissuta al mondo, una scena ci ha fatto capire chi avrebbe vinto e chi avrebbe perso. Un antico guerriero come Marcelo ormai in disarmo per sfide omeriche, non potendo aiutare i compagni in campo portava loro le borracce per dissetarli, dava consigli, stringeva a sé i più giovani incitandoli all'ultima impresa.
florentino perez nasser al khelaifi 4
Lui, Benzema, Modric, Casemiro, i quattro dell'oca selvaggia con lo stemma del Real tatuato sulla pelle. Leader per sempre. Dall'altra parte solo volti sfatti, gente sperduta in terra ostile, nessuno in grado di prendersi la squadra sulle spalle perché l'unico, Kevin De Bruyne, era stato sostituito come un comprimario. Quasi a ribadire che nel City, collettivo aziendale scelto per curriculum, l'unico leader è Pep Guardiola, quello che non gioca.
pep guardiola
Come le perde Guardiola da qualche annetto, nessuno mai. Dopo la sbornia con il Barcellona dei fenomeni e del tiki-taka, il guru da panchina viene rimbalzato come un nouveau riche (cinque tentativi, quattro eliminazioni e una finale persa) nonostante investimenti da 2 miliardi di euro da parte dell'emiro Mansour Al Nahyan e qualche esercizio di finanza creativa tollerato dall'Uefa nel periodo in cui il fair play finanziario era una cosa (quasi) seria.
pep guardiola
Più attratto dal marketing e dagli influencer che dalla sostanza, l'estate scorsa riuscì nell'impresa di pagare 100 milioni di sterline Jack Grealish all'Aston Villa perché somigliava nelle movenze e nella fascetta tricot a David Beckham. Un panchinaro di lusso. Al Real le seconde linee guadagnano la metà rispetto ai big e hanno infinite motivazioni in più per morire inseguendo l'ultimo pallone.
Proprio Guardiola mette la lapide sull'ennesima batosta. «Non stavamo soffrendo, ma loro hanno trovato i gol e mi congratulo con loro. Anche all'89' non mi vedevo in finale perché conosco il Bernabeu. Ora passeremo dei giorni brutti».
pep guardiola
Poi la butta sul destino, sull'incapacità dei suoi di chiudere la partita quando l'avevano in pugno. Ma Clarence Seedorf, a bordocampo come commentatore, ha l'ultima parola: «Non voglio mancare di rispetto al City ma la storia non si crea in due anni e nemmeno in dieci. Al Real se esci agli ottavi non devi farti vedere per strada per un decennio, al City non c'è questa pressione che crea grande responsabilità nei momenti chiave».
Lionel Messi
Si chiama spirito di squadra, carisma di una maglia, forse è quell'amalgama che Angelo Massimino negli anni Settanta cercava sul mercato per il suo Catania («Ci manca l'amalgama? Ditemi dove gioca e lo compro»).
È qualcosa di impalpabile che arriva dal passato, dal destino della storia, e che Ancelotti conosce bene. Un impasto di orgoglio, nobiltà, legame con la filosofia del club che in campo internazionale fa la differenza e che lui ha vissuto su di sé prima al Milan, poi a Madrid.
ancelotti e il figlio davide
In questo contesto è tutto più facile, naturale per dirla alla Jorge Valdano (oracolo da fiera dell'ovvio adorato dalla stampa italiana): «Carlo vince perché conserva il suo spirito rurale e non si sente padrone del football. Mentre gli altri soffrono, lui si diverte. È un uomo felice». Con al fianco il geniale preparatore atletico Antonio Pintus ancora di più.
Meno contento oggi è Alexander Ceferin, padrone dell'Uefa, che sperava di togliersi dai piedi con una squalifica sanguinosa il nemico Florentino Perez (primo promotore della Superlega) e invece il 28 maggio a Parigi rischia di consegnargli la Champions.
Real e Liverpool, squadre antiche refrattarie alle mode, riescono a consolare perfino l'Inter, battuta quest'anno solo da chi è arrivato in fondo al trofeo. Mentre i milionari di plastica galleggiano, un'antica certezza riaffiora dalla notte di Madrid: certi club non cammineranno mai soli.