Stefano Folli per “la Repubblica”
letta meloni
Come era prevedibile, le convulsioni di un sistema politico in affanno s' incrociano con poche certezze e vari punti interrogativi sul prossimo futuro. La principale certezza riguarda il ruolo crescente del premier Draghi in Europa, favorito dal relativo indebolimento di Macron in Francia e dall'apparente carenza di "leadership" del tedesco Scholz. Pur senza condividere i commenti più entusiasti, che arrivano a paragonare Draghi ad Angela Merkel, si deve riconoscere che l'Italia ha guadagnato una sua centralità negli affari europei: lo si vede rispetto all'Ucraina e al suo rapporto con l'Unione, e se ne ha conferma nelle discussioni sul prezzo del gas. Le tesi italiane trovano spesso ascolto e riscontro.
renzi di maio calenda
E questo senza avere un peso equivalente alla Germania durante la lunga era Merkel. Lungi dal sostenere che l'Italia sia diventata il perno degli equilibri europei, è vero che oggi essa rappresenta un fattore di stabilità, avendo trasformato il duopolio franco-tedesco in un triangolo che comprende Roma. Era la norma in tempi lontani, con assetti politici meno incerti di ora. Cosa significa tutto questo? Che nel 2023 il tema della permanenza di Draghi alla guida dell'esecutivo si porrà inevitabilmente.
Conta, è ovvio, il risultato delle elezioni, ma conterà senza dubbio anche il voto dell'Europa, specie se la situazione internazionale resterà critica. È un dato di realtà che qualcuno non vuole ammettere, ma tutti sanno che è così. Del resto, anche i tempi delle elezioni sono abbastanza definiti. L'ipotesi che si allunghi la legislatura per favorire la tornata di nomine pubbliche in scadenza ad aprile, risulta senza fondamento.
giorgia meloni enrico letta atreju
La legislatura finisce nell'ultima settimana di marzo e a quel punto il governo sarà in carica solo per l'ordinaria amministrazione, con la data del voto collocata intorno a metà-fine maggio. Quanto ai punti interrogativi, ce ne sono diversi. Prendiamo l'argomento scabroso della legge elettorale. Dopo la scissione di Di Maio, c'è chi pensa che sia matura la riforma in senso proporzionale. Non è proprio così. E non solo perché l'area centrista - chiamata in modo non sempre appropriato "area Draghi" - è segnata da profonde rivalità personali. Ma per due buone ragioni.
vincenzo spadafora primo di nicola luigi di maio iolanda di stasio
La prima è che protagonisti o comprimari del "centro" vecchio e nuovo vorrebbero un proporzionale con un "quorum" bassissimo per non essere tagliati fuori. Viceversa, l'ipotesi realistica, nella remota eventualità che si discuta la riforma, è una via alla tedesca: sbarramento al 5 per cento, così da non arrendersi alla polverizzazione ricattatoria.
La seconda ragione è la contrarietà dei due partiti maggiori. Letta non ha abbandonato l'idea del "nuovo Ulivo" e il proporzionale lo porterebbe in altri territori. Si troverebbe a dover trattare dopo il voto con una serie di alleati minori ma agguerriti. La stessa Giorgia Meloni, come è noto, è diffidente verso il proporzionale, a maggior ragione oggi che i sondaggi la vedono saldamente in testa.
meloni letta
Peraltro - ultimo interrogativo - la leader di FdI è di fronte a prove difficili che riguardano la gestione del centrodestra. Vedremo come andrà domani a Verona, dove è mancato l'accordo fra i due esponenti della destra, Sboarina e Tosi. In Sicilia il candidato meloniano, Nello Musumeci, è finora rifiutato dai due partner, Forza Italia e Lega. E pesa ancora il fallimento di Roma, dove FdI presentò il bizzarro Michetti. Come dire che lo scollamento del sistema riguarda tutti.