Giampiero Timossi per Il Giornale
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C' è sete, «ma di giustizia», deve aver pensato Virginia Raggi. E così ha subito rilanciato: tra un pensiero agli sciacquoni intelligenti e una chiamata ai vertici amici dell' Acea, ieri mattina la sindaca ha scelto di concentrarsi sulla cittadinanza onoraria ad Antonino Di Matteo.
Assetata di retorica Virginia Raggi è partita con un discreto pistolotto: «Il Comune di Roma oggi ti annovera tra i suoi più nobili figli». E la sindaca ha fatto accenno al processo di Mafia Capitale: «In tanti, troppi, nella politica si nascondono dietro il mancato riconoscimento dell' associazione mafiosa, dietro a quell' organizzazione trasversale che ha spolpato la città».
E ancora: «La città sta uscendo da un periodo oscuro, in cui malavita e politica hanno banchettato a lungo. Si tratta di un' orrenda storia sulla pelle dei romani, non un episodio di malavita comune, che oggi una sentenza del tribunale ha accertato come tale».
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Dunque sotto con la cittadinanza al magistrato, futuro ministro dell' Interno in un ipotetico governo Cinque Stelle. Raggi non ha dubbi: «Di Matteo è un cittadino romano perché non ha mai rinunciato alla coerenza, non ha mai tradito l' insegnamento. E gli diamo il benvenuto nella sua nuova città, dove malavita, imprenditoria e politica hanno banchettato lasciandola al collasso». Oggi il Campidoglio, domani il Viminale, intanto la Direzione nazionale antimafia.
RAGGI DI MATTEO
Quella in sala Giulio Cesare è stata una vera investitura ministeriale, non che ce ne fosse bisogno. Due settimane fa l' ex sostituto procuratore aveva ribadito: «Io ministro? Non escludo nulla». Come dire: mai dire mai, molto James Bond. Però, il magistrato più minacciato e scortato d' Italia aveva fatto anche sapere: «Voglio precisare che porterò a termine il mio impegno sul processo sulla trattativa Stato-mafia e che, se dovessi essere, in futuro, chiamato a servire il Paese, con l' assunzione di un incarico politico, al termine di questa esperienza non tornerei in magistratura».
NINO DI MATTEO
Ieri, con la Lupa in mano, Di Matteo ha commentato la sentenza sulla cosiddetta Mafia Capitale: «Non si è compreso che il sistema criminale con cui oggi ci dobbiamo confrontare è integrato tra metodi mafiosi e sistema corruttivo». Poi il magistrato, che continua a rappresentare la pubblica accusa al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, ha chiuso ricordando l' estremo sacrificio di due colleghi: «Nei giorni dell' anniversario delle stragi di Capaci e via D' Amelio abbiamo ricordato Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e quanti altri sono deceduti. Alla loro memoria va oggi il mio pensiero.
NINO DI MATTEO CON LA SCORTA
<Ma non possiamo limitarci a un ricordo emozionale. Questo Paese se ha la dignità di fare memoria, non può archiviare quelle vicende. Chi conosce gli atti sa che emergono responsabilità ulteriori, oltre quelle per cui ci sono state condanne». Il governo che (forse) verrà aspetta la toga Di Matteo. Lui aspetta, parla di politica e antipolitica, poi da cittadino romano torna alla Direzione nazionale antimafia.