IL RITUALE DELLA FELICITA
Paolo Di Stefano per il “Corriere della Sera”
Persino Albert Einstein, che alla relatività fisica si dedicò per una vita elaborando celebri postulati e teorie, doveva sapere che non c'è niente di più opinabile della felicità, soggetta a un altro tipo di relatività, quella dei sentimenti, delle emozioni umane, delle esperienze individuali. Dunque, ben consapevole che la felicità non è riassumibile in una formula matematica, provò a ricorrere alle parole.
E così un giorno del novembre 1922, raggiunto nella sua camera dell' Hotel Imperial di Tokyo da un cameriere o da un fattorino, lo scienziato decise di ricompensarlo non con una volgarissima mancia in denaro ma consegnandogli due note manoscritte, in tedesco, firmate con nome e cognome.
EINSTEIN RICETTA DELLE FELICITA 2
La prima, su carta intestata dell' albergo, non supera le tre righe: «Una vita tranquilla e modesta dà più felicità che la ricerca del successo, legata a costante inquietudine». La seconda, redatta su un foglio bianco, è una frase meno originale: «Dove c'è la volontà, c'è la strada». Una sorta di: volere è potere... Ora l'erede del destinatario di quei due biglietti ha pensato di ricavarne una sua molto personale forma di felicità, monetaria, mettendoli all' asta: e l' obiettivo è stato ampiamente raggiunto se, partendo dalla modica stima di 5-8.000 dollari, i documenti sono stati battuti a Gerusalemme per ben 1,56 milioni di dollari.
FELICITA
Prezzo a parte, è davvero singolare che il genio tedesco, da poco insignito del premio Nobel, consegnasse a uno sconosciuto non delle generiche perle di saggezza ma delle considerazioni sulla beatitudine, tanto più che sullo stesso argomento si era già espresso con una riflessione già nota e alquanto diversa: «Se vuoi una vita felice devi dedicarla a un obiettivo, non a delle persone o a delle cose», come dire che il benessere va cercato in se stessi.
FELICITA
Dunque, anche Einstein doveva sapere che la ricetta della felicità è più complessa della descrizione di un qualsiasi fenomeno naturale: un' alchimia impossibile, un inganno che si fa beffe anche delle menti più eccelse, al punto da suggerire soprattutto ai poeti l'immagine della fragilità, dell' equilibrio instabile se non del puro effetto ottico. Basti pensare a un altro Nobel, Eugenio Montale, che un paio d' anni dopo, nel 1924, avrebbe scritto versi memorabili: «Felicità raggiunta, si cammina/ per te sul fil di lama./ Agli occhi sei barlume che vacilla,/ al piede, teso ghiaccio che s' incrina;/ e dunque non ti tocchi chi più t'ama».
victor hugo
Insomma, meglio non sfiorarla neanche, quella improvvisa epifania, comunque destinata a svanire in un attimo. Se i poeti (Leopardi in primis) non ci credono, altri cervelloni, meno disposti al pessimismo cosmico, non esitano a proporre la loro formula magica, via via paradossale, ironica, ambigua, sarcastica, ovvia, colorita, brutale, in definitiva sempre effimera: per Aristotele la vera felicità è esercitare il proprio libero ingegno, per Seneca la felicità è non aver bisogno della felicità, per Tolstoj è vivere per gli altri, per Victor Hugo è essere amati per ciò che si è, per Oscar Wilde non è avere ciò che si desidera ma desiderare ciò che si ha, per Winston Churchill non è nell' avere ma nel condividere, per il filosofo Gilles Deleuze per essere davvero felici bisogna accontentarsi.
TOLSTOJ
Che somiglia, tutto sommato, a ciò che scrisse Einstein al fattorino di Tokyo. Accontentarsi: modestia, umiltà... Fatto sta che la sola efficace ricetta della felicità è la teoria della relatività dell' essere beati. A suo modo, aveva ragione Charles M. Schulz, il padre dei Peanuts: «La felicità è un cucciolo caldo...». Oppure, come vuole una celebre canzone: «Felicità è tenersi per mano, andare lontano... è il tuo sguardo innocente in mezzo alla gente...è restare vicini come bambini... è la pioggia che scende dietro le tende...». Tutto e niente. Più niente che tutto. Sono Albano e Romina i veri eredi di Einstein.
sir winston churchill