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    QUANDO L’ARTE DIVENTA UN’ARMA: IL “RISIKO LAGUNARE” ALLA BIENNALE DI VENEZIA – ANTONIO RIELLO: “IL FASCISMO LA USÒ AMPIAMENTE PER LA PROPAGANDA DI REGIME. MA LA PARTE PIÙ AVVINCENTE RIGUARDA LA GUERRA FREDDA. PER GLI USA SE NE OCCUPÒ DIRETTAMENTE LA CIA CON UN DIPARTIMENTO ESTERNO APPOSITAMENTE CREATO, LO IOD (INTERNATIONAL OPERATIONS DIVISION) PER PROMUOVERE ED ESPORTARE L'ARTE CONTEMPORANEA MADE-IN-USA SENZA USARE DENARO PUBBLICO” – LA VITTORIA DI RAUSCHENBERG, LA CHIUSURA DEL PADIGLIONE RUSSO NEL 2022 E LE POLEMICHE PER LA PRESENZA DI ISRAELE


     
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    Antonio Riello per Dagospia

     

    working riello working riello

    Gli esperti di geopolitica pronunciano spesso il termine "soft power". Sta a significare le varie possibili forme di pressione che una nazione (o un gruppo di potere) cerca di esercitare su altri, ma senza usare direttamente il potere militare. La propagazione di false notizie (con lo scopo di sobillare malcontento e proteste) o gli attacchi cibernetici per bloccare i siti delle strutture pubbliche o industriali sono dei classici esempi di soft power.

     

    Ma la lista comporta anche attività apparentemente lontane dai tipici strumenti degli strateghi. Il cinema americano (Hollywood e le sue mitologie) ha rappresentato forse il caso storicamente più eclatante di soft power del secolo scorso. Così è stato anche per la musica leggera e i videogiochi. Oggi gli addetti ai lavori lavorano soprattutto per influenzare i social.

     

    la biennale di venezia la biennale di venezia

    L'affermazione di un'identità nazionale attraverso la produzione artistica (per forza migliore di quella dei potenziali nemici) è vecchia almeno quanto il concetto di nazione. L'Arte Contemporanea, soprattutto nell'ambito di contesti internazionali ad alta visibilità, fa parte, a modo suo, di questi arsenali culturali. Strano ma vero, la Biennale di Venezia, con la sua centenaria storia e la suddivisione in padiglioni nazionali, è stata (e non smette di esserlo) una sorta di "Risiko Lagunare".

     

    Il Fascismo come è ovvio la usò ampiamente per la propaganda di regime. Ma la parte più avvincente riguarda la Guerra Fredda che, negli anni 60, si è infatti combattuta anche tra i viali dei Giardini della Biennale.

     

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    Fin dai tempi dell'amministrazione Truman gli USA avevano iniziato una offensiva culturale per convincere il Mondo che non "erano solo un paese di bottegai" ma una nazione capace di produrre cultura di alto livello. Si trattava di dimostrare che la democrazia liberale (e capitalista) era capace di competere sul piano culturale con l'Unione Sovietica.

     

    La questione principale in realtà era persuadere le élite intellettuali europee (in Francia e in Italia erano decisamente schierate a favore del modello comunista) che la libertà politica del sistema occidentale avrebbe indotto in automatico una equivalente libertà creativa (fondamentale per l'innovazione artistica).

     

    L'equazione era semplice e anche sostanzialmente vera: dal 1924 Stalin aveva messo in pista il Realismo Socialista a senso unico che bloccò di fatto quasi completamente qualsiasi forma di espressione "non-conforme". In URSS poteva esistere solo una pittura figurativa fedele ai valori del Partito Comunista (e anche i successori di Stalin non fecero molto di meglio).

     

    us pavillion biennale venezia us pavillion biennale venezia

    Della faccenda se ne occupò direttamente la CIA con un dipartimento esterno appositamente creato, lo IOD (International Operations Division) il cui capo per anni fu Thomas W. Braden. La missione era sostenere, promuovere ed esportare efficacemente l'Arte Contemporanea made-in-USA senza usare denaro pubblico (senza insomma coinvolgere l'opinione pubblica che era piuttosto fredda - se non ostile - alle opere "moderne", i maccartisti in particolare consideravano gli artisti una pericolosa gang di irrecuperabili comunisti).

     

    leo castelli leo castelli

    Vennero coinvolti sia la Fondazione Rockfeller che il MoMA. Per farla breve: Il padiglione USA alla Biennale di Venezia fu gestito autonomamente dal MoMA stesso (senza passare per il governo americano) dal 1954 al 1962. William A. Burden e John H. Whitney (assieme a Nelson A. Rockfeller) furono i personaggi chiave del consiglio del museo che gestirono con discrezione e indubbia capacità la cosa (non erano comunque dei bigotti burocrati, conoscevano bene l'Arte e avevano una visione ragionevolmente progressista della politica). Si occupavano, tra varie cose, anche di promozione (la rivista "Life" faceva parte della stessa cordata) e di logistica (la CIA aveva una piccola flotta mezzi di trasporto, aerei compresi).

     

    de kooning portrait de kooning portrait

    La quintessenza dell'arte statunitense era l'Espressionismo Astratto e alcuni esponenti, come Jackson Pollock e Willem de Kooning, furono tra i primi soggetti "valorizzati" attraverso questi meccanismi (a Venezia comunque li aveva già fatti conoscere Peggy Guggenheim già dal 1948).

     

    Nel 1954 de Kooning rappresentò gli USA alla XXVI Biennale (proprio fra qualche giorno inaugura la mostra che le Gallerie dell'Accademia di Venezia gli dedicano). Pochi anni dopo, nel 1958, Mark Tobey (un pittore astratto americano che amava la calligrafia orientale) vince il premio della Biennale. L'offensiva culturale statunitense ebbe successo e non si fermò solo a Venezia (la mostra "The New American Painting" nel 1958 è a Milano e nel 1959 alla Tate di Londra e al Musée National d'Art Moderne di Parigi).

     

    pollock portrait pollock portrait

    Una curiosità: Jackson Pollock in certi ambienti governativi era stato (impropriamente) immaginato come un Cow Boy dell'Arte, uno che avrebbe potuto veicolare una certa idea - maschilista e alcoolica - dello stile di vita americano di allora. E una nota: gli artisti in questione non seppero mai che parte del loro meritatissimo successo era stato anche frutto di un disegno politico/propagandistico. Non erano dei "raccomandati". Solo erano persone di enorme talento che si sono trovate nel posto e nel momento giusto.

     

    rauschenberg square rauschenberg square

    New York stava diventando la indiscussa capitale mondiale dell'Arte soppiantando decisamente Parigi. E iniziavano contemporaneamente a sorgere le stelle della Pop Art. Nel 1964 prende forma il capolavoro dello IOD/MoMa: Il Padiglione americano della XXXII Biennale, gestito da Alan Solomon, Leo Castelli e Alice Denney.  In mostra la punta di diamante della Pop Art: Claes Oldenburg, Jasper Johns e Robert Rauschenberg.

     

    Una scelta, va detto, di assoluta qualità ma anche astutamente ideologica: promuovere ufficialmente un'Arte che sottilmente contestava il consumismo capitalista era la prova-provata della superiorità (e della solidità) di un sistema che poteva permettersi di celebrare addirittura i propri detrattori. Insomma un antidoto culturale per i critici della famigerata "Società Opulenta".

     

    moma moma

    Si puntava a far vincere Rauschenberg. Castelli scoprì proprio la sera prima che per vincere il Leone d'oro un artista - da regolamento - doveva avere esposte almeno 4 opere. Ma ce ne era una sola. Nella notte - con l'aiuto diretto del Dipartimento di Stato e anche di alcuni Marines di stanza al consolato USA a Venezia - si riuscì rocambolescamente a fare arrivare nel padiglione altre 3 opere.

     

    Giusto in tempo. Quella della mattina dopo fu una decisiva vittoria e il sole della Pop Art illumino' a lungo la scena (e il mercato) dell'arte. In Italia Guido Piovene disse che "era il primo fatto nuovo che compariva alla Biennale dopo molti anni". Non tutti erano contenti. I giornali di sinistra naturalmente scrissero del solito "complotto della CIA" (senza saperlo, almeno stavolta, erano abbastanza vicini al vero).

    giardini padiglione biennale venezia giardini padiglione biennale venezia

     

    La ineffabile Curia veneziana si espresse definendo questa nuova arte americana "un grande disordine morale" (?!). Dopo il trionfo del 1964 i destini delle Arti Visive apparentemente smisero di interessare la politica estera americana. In ogni caso il Padiglione dell'Unione Sovietica a Venezia rimase chiuso nel 1980 in occasione dell'invasione dell'Afghanistan.

     

    a thomas braden a thomas braden

    La chiusura del Padiglione Russo nel 2022 fu una scelta autonoma dei curatori e degli artisti russi dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina e non una esclusione operata dalla Biennale stessa. La Biennale di Venezia è giuridicamente tenuta ad ospitare progetti artistici dei paesi riconosciuti dalla Repubblica Italiana. Un eventuale "NO" a qualche paese è una decisione politica che afferisce al governo.

     

    I problemi iniziano quando delle entità politiche significative non hanno il pieno status di "nazione riconosciuta", come il caso del Polisario (ex Sahara Spagnolo), dei Kurdi iracheni o dell'Autorità Palestinese. Insomma dei popoli senza stato. Altro tipo di grattacapo:  quando un paese diventa oggetto di una pressante campagna di "boicottaggio culturale". E relativo paradosso: come può la Cultura essere non-inclusiva e non cercare disperatamente il - magari anche scomodo -  dialogo? Altrimenti vuol dire che tanti scatenati attivisti confondono la Cultura (e l'Arte) con l'adesione a ideologie più o meno fanatiche.

     

    padiglione israeliano dei giardini della biennale padiglione israeliano dei giardini della biennale

    Quest'anno (a parte un nuovo forfait russo) il grande tema geopolitico verte sulla situazione in Medio Oriente. Il tanto discusso Padiglione di Israele ai Giardini (curato da Mira Lapidot e Tamar Margalit e dedicato all'artista Ruth Patir) ci sarà (anche se è notizia di oggi la decisione di chiuderlo “fino alla liberazione degli ostaggi”, mantenendo la possibilità ai visitatori di vedere attraverso le vetrate le tre opere di video arte dell’artista Ruth Patir, che compongono l’esposizione “(M)otherland”)

     

    Pochi ne hanno parlato, ma ci sono stati dei tentativi (più timidi e meno vociferanti) per chiedere l'esclusione della Repubblica Islamica dell'Iran che sarà regolarmente presente in un palazzo veneziano (l'Iran non ha un suo edificio ai Giardini) con un titolo curioso: "La Razza Umana". In entrambi i casi molto meglio che queste proposte siano presenti e visitabili, anche solo per dissentire e se occorre - eventualmente - parlarne pure male.

     

    In tale ambito geopolitico comunque la cosa più rilevante è probabilmente un "progetto collaterale" riconosciuto dalla Biennale. Si chiama "SOUTH WEST BANK Landworks, Collective Action and Sounds". Il curatore è l'australiano Jonathan Turner.

     

    rauschenberg 1964 rauschenberg 1964

    La mostra ospita una interessante panoplia di artisti e collettivi palestinesi, ma non mancano le voci di artisti israeliani dissidenti: Amer Barbari, Adam Broomberg, Duncan Campbell, Rafael González, Isabella Hammad, Shayma Hammad, ChrisbHarding, Baha Hilo, Emily Jacir, Sebastián Jatz Rawicz, Sari Khoury, Benjamin Lind, Jumana Manna, Jasbir Puar, Michael Rakowitz, Adam Rouhana, Mohammad Saleh, Vivien Sansour, Andrea de Siena, e Dima Srouji. Sicuramente siamo di fronte ad un evento politico-poetico che, ancora una volta, attraversa le contorte strade che intrecciano l'Arte Contemporanea con le grandi sfide della Storia. Le domande (molto serie) che pone il progetto sembrano più numerose delle eventuali risposte (e dovrebbe funzionare proprio così nell'Arte...). Inaugura il 19 Aprile a Palazzo Polignac (878 Dorsoduro).

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