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    CON UN DECA NON SI VEDE IL BOSS – QUANDO, NEL 1985, MAX PEZZALI NON RIUSCÌ AD ENTRARE AL PRIMO CONCERTO DI BRUCE SPRINGSTEEN A SAN SIRO: “NON TROVAMMO I BIGLIETTI, CONFIDAMMO NEI BAGARINI. CHIEDEMMO A UN PO’ DI TIZI LOSCHI MA ERANO TROPPO CARI. IMPLORAI IL BAGARINO, NIENTE SCONTO. CI ALLONTANAMMO CON LA MORTE NEL CUORE" - LA PASSIONE PER IL "BOSS" DI MAX: “NEL 1984 'AMERICA' SI SCRIVEVA CON LA K IN TONO DISPREGIATIVO, NON ERA COOL. FIGURIAMOCI SPRINGSTEEN. E INVECE SONO CADUTO DENTRO 'BORN IN THE U.S.A.' CON TUTTE LE SCARPE” – VIDEO


     
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    Estratto di “Bruce Springsteen 50” il libro di Ermanno Labianca ed edito da Rizzoli Lizard - Max Pezzali: “Ho cantato la provincia solo grazie a Bruce Springsteen”

     

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    Nel 1984 mi sono innamorato di Bruce Springsteen. Lo ammetto, ci sono arrivato un po’ tardi. A parziale discolpa posso dire che fino a quel momento la mia idea di musica aveva come epicentro il punk, l’Inghilterra, Londra, Manchester, e da lì si sviluppava verso il post punk e la new wave, spingendosi fino al synth pop.

     

    Gli Stati Uniti erano contemplati solo marginalmente in questo percorso, con band come i Ramones, i Dead Kennedys, i Black Flag, i Devo, i Wall of Voodoo, i Talking Heads, i Cars: non certo l’America mainstream, bensì quella più underground, fighetta e alternativa.

     

    In quegli anni, America si scriveva con la K, in tono dispregiativo (un po’ come Kossiga…), c’era la Guerra Fredda, Berlino era divisa, Ronald Reagan era il diavolo e la CIA il suo braccio armato. L’America non era cool. Figuriamoci il Boss, che ne stava diventando l’interprete più autentico. E invece sono caduto dentro Born in the U.S.A. con tutte le scarpe.

     

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    In verità avevo comprato l’lp quasi distrattamente, perché tutti ne parlavano: amici, riviste, radio. Non volevo restare escluso dall’evento discografico del momento. Poi l’ho ascoltato con attenzione, e ho visto la luce. Ogni traccia, ogni accordo, ogni parola, ogni sillaba: tutto contribuiva a svelarmi un’America che non conoscevo.

     

    Il trauma irrisolto della guerra del Vietnam, le difficoltà della classe operaia, il fallimento del sogno americano, la crisi d’identità di un Paese non più sicuro della propria invincibile centralità. Quell’album mi fece vedere per la prima volta un universo ignoto.

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    Nei giorni successivi racimolai i pochi risparmi per comprare The River (album doppio, per me quasi fuori budget) e Nebraska. Su Nebraska potrei scrivere pagine infinite, è per me uno degli album fondamentali della storia della musica e oggetto di feticismo e venerazione quasi mistica, ma sarà per un’altra volta.

     

    La canzone The River mi colpì come un pugno di Iron Mike in piena faccia: i due protagonisti, una coppia di teenager che a causa di una gravidanza inaspettata sono costretti ad affrontare una realtà molto diversa dai loro sogni di gloria, mi ricordavano me e la mia fidanzatina dell’epoca.

     

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    The River era il Ticino, e la valle in cui «ti crescono per fare quello che faceva tuo padre» era la bassa Pavese. Tutto combaciava. Improvvisamente mi resi conto che la mia piccola realtà di provincia si specchiava nel mondo raccontato da Springsteen: Pavia era il New Jersey e Milano era New York (luoghi vicinissimi geograficamente ma distanti anni luce per chi li vive), il «lunar landscape» era la piatta e monotona pianura padana d’inverno, i blue collar protagonisti di tante canzoni erano i miei amici del bar che perdevano il lavoro a causa della delocalizzazione delle fabbriche. Bruce parlava anche di me, pur essendo nato e cresciuto dall’altra parte del pianeta.

     

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    21 giugno 1985. Con la mia fidanzatina e l’amico Masca stiamo andando in macchina verso San Siro, dove Bruce Springsteen stasera farà il concerto del secolo, almeno dal nostro punto di vista. Non abbiamo trovato biglietti, ma confidiamo nei bagarini. Guido da Pavia a Milano sulla statale 35 per risparmiare i soldi dell’autostrada, con un filo di gas, come diligentemente letto su Quattroruote, per non dover fare benzina al ritorno.

     

    Parcheggiamo a casa di Dio e ci spostiamo a piedi verso l’ingresso dello stadio. Chiediamo a un po’ di tizi loschi che sventolano mazzette di biglietti, ma le quotazioni sono ancora troppo alte. Aspettiamo. Man mano che ci si avvicina all’inizio del concerto, il prezzo è destinato a scendere, è la legge della domanda e dell’offerta, cazzo!

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    Passano i minuti, insistiamo a chiedere in giro ma i biglietti continuano a essere troppo cari per le nostre finanze: potremmo al massimo comprarne due, uno di noi dovrebbe restare fuori. Panico. La mia ragazza mi dice con rassegnazione: «Andate voi, vi aspetto qui». Sono agitato, sto sudando per il caldo e per la tensione, guardo il mio amico Masca, riconto i soldi che nel frattempo non si sono moltiplicati, ascolto lo stadio tremare per l’entusiasmo dei fan del Boss, imploro il bagarino di farmi lo sconto. Niente.

     

    All’improvviso vedo avvicinarsi degli aerei (credo fosse una specie di pattuglia acrobatica privata, ma non ne sono sicuro) che puntano verso lo stadio e ci passano sopra: il pubblico esplode letteralmente, una bomba da cento megatoni. «Born down in a dead man’s town…». «Non preoccuparti, amore, entriamo tutti e tre o non entra nessuno».

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    Ci allontaniamo con la morte nel cuore, mentre le note di Bruce e della E Street Band echeggiano per chilometri, e in un paio di canzoni raggiungiamo la macchina. Masca non mi parlerà per giorni.

     

    Tra i disperati che come noi non sono riusciti a entrare, gira voce che abbiano allestito un maxischermo per vedere il concerto al parco di Trenno, ma la delusione per essere stati così vicini alla realizzazione del nostro sogno e averlo mancato per poche decine di migliaia di lire è troppo grande.

     

    Torniamo verso casa. Anche stavolta il New Jersey non ha conquistato New York. Qualche tempo dopo, la mia ragazza tentò di farsi perdonare regalandomi per il mio compleanno il box set Live/1975-85.

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