Cristiano Sanna Martini per https://notizie.tiscali.it/
Sharbat Gula 5
Quanto è stato bello commuoversi e restare ammaliati di fronte agli occhi enormi di paura, come li avrebbe chiamati Fabrizio De André, quando il fotografo americano Steve McCurry li catturò nel 1984 rendendoli un'icona mondiale. Finirono sulla copertina di National Geographic, a raccontare lo spaesamento, la stanchezza, l'istinto a difendersi da tutto e tutti come fa un animale ferito, e servirono per riposizionare le lacrime del mondo sul dramma infinito dell'Afghanistan.
All'epoca Sharbat Gula aveva appena 12 anni ed era una delle tante bambine di nessuno sperse nell'ennesimo campo profughi. La sua tragica bellezza, magnetica, aprì il cuore di chiunque non fosse troppo morto per non reagire in modo sentimentale di fronte ad un dramma che è tuttora il dramma di milioni di persone. Ed è ancora il dramma di Sharbat, di nuovo cacciata via da una casa umile, semplice, avuta dopo anni e anni di peregrinazioni nella terra di nessuno. Ancora odiata, minacciata, costretta ad andarsene.
Sharbat Gula
La paura che ti consuma
Ossessionato dall'immagine che aveva colto, per 20 anni McCurry cercò di ritrovare la ragazzina che aveva trasformato nella "Mona Lisa dei profughi", il simbolo di tutti i diseredati del mondo, quelli che vivono di pochissimo pane e molto coraggio per spostarsi fra la loro terra occupata con le armi dalla gente che li odia verso altri posti dove nessuno li vuole.
sharbat gula 5
La trovò, donna adulta, sposata, in una piccola e poverissima casa di blocchetti, che lavava i piatti con le mani, un po' di acqua e nessun detersivo, i figli attorno e l'umiltà di un marito panettiere che faceva il possibile per provvedere alla famiglia in un Paese dalle ferite profonde. Tanto da segnare gli stessi lineamenti di Sharbat, visibilmente consumata dalla paura che le ha camminato a fianco per anni. Non era un lieto fine, e anzi, non è nemmeno la fine di una brutta vicenda.
Verso Roma
C'erano voluti 45 anni da profuga, da indesiderata, da orfana, a Sharbat Gula, per avere quella parvenza di casa. L'ultima ritirata americana dall'Afghanistan, quella che ha fatto ripiombare il controllo religioso e armato dei Talebani sul Paese, con sacche sempre più sostanziose di Isis nel mezzo, ha messo il mondo occidentale, ricco e distante, pronto a commuoversi per un ritratto fotografico e poi a tirare su muri, filo spinato, torrette armate contro migliaia di disgraziati schiacciati fra il freddo e le violenze dei bielorussi presieduti da Lukashenko e i soprusi della polizia di frontiera polacca.
Da quel carnaio, in mezzo a sfollati afgani destinati a 24 Paesi diversi, Sharbat Gula è riuscita a venire fuori proseguendo il suo cammino con l'unica forza che le è rimasta, fino ad arrivare a Roma. Un viso che parla, e sappiamo anche troppo bene ciò che ha da raccontare. Se solo ce ne vogliamo ricordare.
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