HOCKNEY
Camillo Langone per il Giornale
La fotografia ha fatto il suo tempo, l'astrazione non ha futuro, l'avanguardia non interessa più: è musica per le orecchie di un conservatore l'ultimo libro scritto da David Hockney in collaborazione con Martin Gayford, Una storia delle immagini (Einaudi).
Oltre che, ma questo è leggermente più ovvio, una festa per gli occhi: organizzata con 341 illustrazioni, molte delle quali di grande formato e così ho capito il vero merito di Munch (non la follia, ma la geniale economia di mezzi), di Degas (non le ballerine, ma il corpo a corpo con la fotografia), di Dufy (non i paesaggi cartolineschi, ma l'aver direttamente ispirato appunto Hockney)...
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L'autore smonta il progressismo artistico che non è per nulla un'invenzione moderna, visto che impregna le cinquecentesche Vite del Vasari: «L'arte non progredisce. Alcune delle prime immagini sono rimaste le migliori. Raffaello non è meglio di Giotto», afferma Hockney.
Per dimostrarlo evidenzia la potenza di un toro di Lascaux, quindicimila anni avanti Cristo e diciassettemila avanti Christo, l'impacchettatore, più l'impressionante esattezza di un grande felino inciso da un nostro antenato nella grotta di Combarelles, sempre nel sud-ovest della Francia. Questo è un concetto già espresso da Jean Clair, ma Clair è uno storico francese evidentemente reazionario, mentre Hockney è uno dei massimi protagonisti del contemporaneo angloamericano, omosessuale dichiarato (innanzitutto sulla tela), fumatore di marijuana non solo in giovane età, amico di Andy Warhol e artista pop in proprio, sperimentatore con Polaroid e iPad, insomma quanto di più lontano dallo stereotipo del passatista.
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Eppure il pittore inglese divenuto famoso dipingendo piscine californiane (famoso e ricco: The Splash è stato battuto a 2,6 milioni di sterline), preferisce sempre quello che c'era prima e dunque Picasso era meglio di Bacon e Nadar era meglio di qualsivoglia fotografo successivo: «I ritratti di Rossini, Delacroix, Baudelaire sono rimasti ineguagliati». Forse perché, ipotizza, quegli antichi, leggendari ritratti scaturivano da lunghe pose e «un'esposizione di due minuti può effettivamente cogliere i più impercettibili movimenti del volto». Suppergiù negli stessi anni la fotografa vittoriana Julia Margaret Cameron sfiancava i suoi modelli con pose di quattro minuti e Degas, avendo deciso di sperimentare il nuovo mezzo, costringeva gli amici Mallarmé e Renoir a un interminabile quarto d'ora di immobilità. Ovvio che i risultati fossero più prossimi alla pittura che agli attuali selfie.
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Nell'Ottocento la fotografia era qualcosa di laborioso e costoso, oggi viceversa bastano un clic e un telefonino, tutti possono fotografare e tutti infatti fotografano, producendo un diluvio di immagini senza valore e senza futuro.
Da vero conservatore, Hockney è sensibile ai temi della selezione e della durata: «Quante più fotografie fai, tanto minore è il tempo che dedichi a ciascuna di esse. La maggior parte di esse verrà dimenticata. Tutte le immagini oggi immagazzinate nei computer potrebbero andare perse in seguito all'obsolescenza dell'hardware e del software». Qui però devo correggerlo, il condizionale è di troppo, gli esperti ci avvisano che gli album digitali personali nel lungo periodo andranno persi certissimamente, a meno che non si provveda a stamparli e a stamparli bene, non dico a livello di Nadar, ma quasi.
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Ebbene sì, l'unica certezza per immortalare se stessi o i propri cari resta, come secoli fa, l'olio su tela. Chiaramente Hockney, i cui cataloghi brulicano di ville di Beverly Hills, boschetti della campagna inglese, interni con ricchi committenti, quando dice pittura intende figurazione. L'astrazione gli sembra buona solo per esercitare il sarcasmo: «Un tempo l'arte astratta era vista come l'arte del futuro, ma dal punto di vista della seconda decade del XXI secolo la cosa sembra molto meno ovvia». Le installazioni vengono liquidate senza rimpianti:
«Nessuno mostra più un grande interesse per l'avanguardia, ha perso la propria autorevolezza». David Hockney è un settantanovenne ottimista che continua a dipingere con una freschezza ignota a molti trentenni, che continua a cercare, a studiare, a conversare con il critico Gayford per la gioia di chi si immerge in libri come questo. «Il disegno e la pittura continueranno a esistere, come il canto e la danza, perché la gente ne ha bisogno». Dunque la storia delle immagini continuerà a essere una storia umana, il pennello non verrà abbandonato e l'amore per l'arte custodita nei musei non si spegnerà.
Non siete ancora convinti? L'entusiasmo di Hockney non vi ha contagiato? Allora fatevi un giro nelle accademie: a cominciare da quella di Brera a Milano, sono piene di ragazzi che, fregandosene dei divieti delle vecchie avanguardie, dipingono.
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