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    TRANSAMERICA: LA STORIA DI RENÉE RICHARDS, IL PRIMO ATLETA A CAMBIARE SESSO - LA BATTAGLIA PER POTERSI ISCRIVERE ALL’US OPEN DI TENNIS NEL ’77: “FU LA CORTE SUPREMA A DARMI RAGIONE” - "SERENA WILLIAMS? HA PIÙ TESTOSTERONE DI QUALCHE UOMO"


     
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    Emanuela Audisio per “la Repubblica”

     

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    Transamerica ha 81 anni. Quaranta vissuti da uomo, l’altra metà da donna. Non passa inosservata: per l’altezza e l’andatura. Un metro e novanta, 47 di piede, mani giganti.

     

    È stata la prima nello sport ad attraversare quel confine, con la racchetta in mano. A giocare con le protagoniste di un’epoca: doppio con Billie Jean King, scambi con Martina Navratilova, con cui da coach ha condiviso anche il Grand Slam Career.

     

    E a vincere in tribunale per il suo diritto di partecipare ai tornei: dal 1977 al 1981. La dottoressa Renée Richards, specialista in occhi, attira sguardi nel suo studio a Manhattan.

     

    Fosse ancora il dottore Richard Raskind, i bambini non griderebbero: «Mamma, quant’è alta». Chi ha visto la serie tv Transparent capirà. Renée porta scarpe basse, pantaloni neri, maglione a dolce vita morbido, orecchini, Rolex d’oro al polso. «Me lo ha regalato Martina Navratilova, dopo un allenamento».

     

    Renée, lei nel 1975 cambiò sesso.

    «Sì, ma senza andarlo a dire in tv. Tenni tutto segreto. Mi operai a New York, tre ore in sala operatoria, e all’uscita avevo l’impressione che mi avessero pugnalato in mezzo alle gambe. Per 48 ore fu tutto molto insopportabile. Quando lasciai l’ospedale ero sola: senza gruppo di sostegno, senza appoggio psicologico. Avevo già iniziato una cura ormonale a base di estrogeni che in tre anni mi aveva eliminato la barba.

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    Feci altre due operazioni per aumentare il seno. Ero sposato, divorziato, avevo Nick, un figlio di tre anni. Avevo studiato a Yale, ero stato in Marina, giocavo a tennis piuttosto bene. Ma decisi di scomparire, di vivere la mia nuova identità lontano dai posti dov’ero nato e dove ero Richard. Così andai in California pronta a ricominciare un’altra vita ».

     

    Problemi in famiglia?

    «Non posso dire di no. Mio padre, ortopedico, quando andavo da lui vestito da donna, mi ignorava. Mia madre, psichiatra, una volta ad Halloween mi vestì da bambina e gli altri genitori le chiesero perché non fossi mascherata.

     

    Sono cresciuta nel Queens, mi piacevano le ragazze e le auto. Ma al college già mi depilavo le gambe. E a mio figlio fino a quando ha compiuto otto anni non ho detto niente, davanti a lui mi presentavo con abiti maschili. Per Nick ero e sono papà».

     

    Ma in un torneo notarono il suo servizio.

    «Mi ha fregato la passione per il tennis. Ho continuato a giocare con il mio nuovo nome. Ma a La Jolla, un giornalista s’insospettì per come battevo, un po’ troppo da uomo, io tra l’altro sono mancina, e iniziò a fare ricerche. Scoprirono chi ero, montarono le polemiche, ero un’immorale, dovevo scusarmi.

     

     

    Di cosa? Volevo solo un po’ di anonimato. Essere Renée, rinata appunto, quel nome lo avevo scelto anni prima in un soggiorno a Parigi dove ero stata tentata da un’operazione a Casablanca dal dottor Burou. Mi presentai in Marocco con quattromila dollari in contanti, ma scappai quando vidi le condizioni igieniche della clinica ».

     

    E poi come andò?

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    «Andò che se anche mi fossi ritirata, avrei fatto scandalo ovunque. E allora pensai che forse valeva la pena battersi contro i pregiudizi, contro una United State Tennis Association che rifiutava la mia iscrizione all’Us Open. Che diritto avevano di escludermi? Portai la mia causa davanti alla Corte Suprema e vinsi, i medici testimoniarono la mia nuova identità. Avevo perso 20 chili e il 30 per cento della mia massa muscolare.

     

    A 40 anni giocavo contro le ragazzine di venti, a quali Evert e Austin potevo fare paura? Ma per loro ormai ero un mostro: venuta a deturpare la loro femminilità e i loro incassi».

     

    Molte avversarie rifiutavano di darle la mano.

    «Sì. Qualcuna si ritirò per polemica. Il pubblico mi lanciava lattine. Dicevano: se non è una vera donna perché gioca con le donne? Non volevano che usassi il loro bagno e la loro doccia. Ma perché c’è sempre questo problema della toilette? Portavano i cartelli: I’m a real woman. Mi disprezzavano: meglio un uomo intatto che una trans, donna imperfetta.

     

    Soprattutto avevano paura di perdere il guadagno, credevano che un giorno noi trans avremmo sbaragliato la concorrenza, fatto a pezzi tutte loro, che poverine avrebbero vinto solo spiccioli. Io che volevo stare in silenzio, mi ritrovai bandiera di un mondo che voleva dignità. Come oculista guadagnavo 100 mila dollari l’anno, secondo le mie colleghe mi ero fatta tagliare il pene per vincere a tennis?».

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    E così nel 1977 giocò l’Us Open.

    «Persi al primo turno con Virginia Wade, ma nel doppio arrivai in finale, anche se contro Navratilova-Stove non ci fu niente da fare. E con Ilie Nastase nel 1979 raggiunsi la semifinale nel doppio misto. La mia miglior classifica è stata il numero 20. Fossi diventata trans a vent’anni sarebbe stata un’altra storia».

     

    La legge disse sì, lo sport no.

    «Esatto. Philippe Chatrier, presidente della Federazione Internazionale Tennis, mi proibì di giocare in Europa. Temeva la rivolta delle altre. Il vostro Martin Mulligan m’invitò al Foro Italico, ma per il divieto non se ne fece nulla. L’opposto di quello che capita oggi visto che il Cio ha aperto ai trans che hanno cambiato sesso da almeno due anni, mentre molti Paesi non riconoscono la loro nuova identità».

     

    Da chi ebbe solidarietà?

    «Dalla Navratilova, da Billie Jean King che cercò di calmare gli animi: ragazze, è una donna, quindi giocherà, fatevene una ragione. Da McEnroe, da Bjorn Borg che m’invitò da lui a mangiare polpette svedesi, solo che a tavola si sentivano degli schiocchi provenienti dagli armadi. Erano le corde delle sue racchette che saltavano perché lui le sottoponeva ad una pressione pazzesca. Lo sport è fatto di superiorità, anche fisica, dov’è l’ingiustizia? Prendete Serena Williams, ha più testosterone di qualche uomo».

     

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    E allora?

    «Dovrebbe fare la boxe, salire sul ring, mette paura, avete visto i muscoli? È femmina, ma ha una forza dannata, usa e sfrutta questo suo vantaggio e fa bene. È meno donna di altre, ma anche più uomo di altri. Lo sport è diversità, è mettere a profitto le proprie caratteristiche, non vergognarsene ».

     

    Com’è stato allenare Navratilova?

    «Bello perché è un’atleta eccezionale. Ascolta, anche se non sembra, e non biso- gnava ripetere le cose due volte. Ma Martina è anche una persona fragile, generosa nel voler comprendere tutti.

     

    Con me è riuscita a battere Chris Evert e a vincere due Wimbledon. Quando sono stata in difficoltà mi ha saldato un debito di 400 mila dollari e quando in Giappone ha visto che guardavo, rapita, un oggetto elettronico che non potevo permettermi, me lo ha regalato. Sulla sua generosità non si discute, manteneva un gruppo immenso, amici e scrocconi, e pagava sempre lei».

     

    Ma nel 1983 si è licenziata.

    «Martina quando si innamora mette la persona amata al centro di tutto e a quel punto consigliarla è difficile. Ma al torneo di Parigi guardava sia me che Nancy Lieberman, sua fidanzata e preparatrice atletica, e andava in confusione. Così ho detto basta, senza rancori, tanto che mi ha voluta come sua presentatrice quando è entrata nella Hall of Fame del Tennis».

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    Sorpresa da Bruce Jenner, ex decathleta, diventato Caitlyn?

    «Molto. Anche perché i giornali hanno scritto che l’avrebbe fatto su mio consiglio, ma non è vero. Io non capisco come si possa cambiare sesso sotto l’occhio delle telecamere. Quel coltello, o forse dovrei dire lama, che usa il chirurgo porta ad una realtà irreversibile. E anche dolorosa. Io volevo l’anonimato, oggi invece cercano pubblicità. C’è chi mi chiede: ci dica, lei che è stata una pioniera. Non lo sarei mai stata se la stampa mi avesse lasciata in pace. E la sera a letto, ci sono io, non la pioniera».

     

    Rimpianti?

    «Ci sono scelte personali che si fanno per sano egoismo, ma che coinvolgono anche gli altri. Mi sono allontanato per quattro anni da mio figlio, Nick, che in quel momento ha perso un padre: è una cicatrice che non sparisce. L’autorità paterna in gonna funziona meno. Per non parlare di certe scene, al supermercato, dove Nick mi chiama papà, papà, e la gente vede un omone in gonna e camicia che si avvicina a lui. Non è facile quando il tuo bimbo a nove anni ti chiede: papà hai i seni? Come non è stata facile la prima visita ginecologica dopo l’operazione, il dottore era molto più nervoso di me».

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    Non ha risposto.

    «Non posso. Allora non avevo scelta. Ho sempre amato donne, tranne la parentesi di una relazione con due uomini. E ho provato a negare la mia parte di maschio, ma vivevo in una società che non mi avrebbe permesso di essere effeminata, senza farmi sentire diversa. E l’operazione l’ho fatta con una buona dosa di incoscienza, a volte è meglio così».

     

    Richard è morto?

    «No, vive in un’altra persona. Io da Renée non cucino, né faccio giardinaggio, adoro lo stesso Bach che adoravo quando ero Richard. Come Renée non ho mai amato uomini e come Richard ho amato donne. E ora che sono invecchiata dò ai vestiti molto meno importanza di una volta.

     

    Non odio Richard Raskind, è una parte di me, ho la sua stessa personalità. E mi dispiace per mia moglie, per mio figlio, per la mancanza di privacy. Ai giovani quando c’è conflitto tra il proprio sentire psichico e la condizione anatomica bisognerebbe lasciare tempo per decidere, non forzarli, a volte anche le circostanze sono un obbligo».

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    Se si guarda allo specchio?

    «Sono un facsimile di donna, non ho ovaie, né utero. Ma sto bene nella mia pelle. Richard era un bel tipo, però nel suo sguardo c’era tanta disperazione».

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