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    REPLICATOR - LE FABBRICHE NEL FUTURO? UN COMPUTER - PRESTO POTREMO PRODURRE QUALSIASI COSA CON UN CLIC


     
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    Riccardo Luna per "La Repubblica"

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    «Stiamo rapidamente andando verso un mondo in cui chiunque potrà produrre qualunque oggetto in ogni luogo. E questo avrà un impatto incredibile sul modo in cui viviamo, impariamo, lavoriamo, giochiamo. Non mi riferisco alle stampanti 3D. Al Centro per i Bit e gli Atomi del MIT stiamo progettando una macchina che ricorda il Replicator del telefilm Star Trek.

    Lì quando avevano bisogno di un oggetto, spingevano un pulsante e questo veniva prodotto in pochi secondi. Ecco, noi lo chiamiamo Assembler e non è ancora pronto ma fra cinque anni al massimo lo vedrete. L'idea è che un giorno non possa solo stampare i pezzi di un aereo: ma tutto l'aereo assemblato e funzionante, pronto a volare...».

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    Neil Gershenfeld ha una cinquantina d'anni, la barba nera appena ingrigita e lo sguardo brillante. Nel 2003 ha aperto a Boston il primo FabLab, un laboratorio per "produrre quasi qualsiasi cosa". Dieci anni dopo i FabLab si sono diffusi in tutto il mondo, il movimento dei makers guida la terza rivoluzione industriale e Gershenfeld è al fianco del presidente Barack Obama per capire come si crea il lavoro perduto a partire dalla manifattura digitale "cioè dal fatto che è sempre più facile trasformare le cose in dati e i dati in cose".

    Qualche giorno fa il professore è stato convocato alla Casa Bianca per spiegare il fatto che le stampanti 3D stanno diventando un tormentone che ci porta fuoristrada: «Dire che da sole cambieranno il modo in cui si fanno le cose è un po' come dire il forno a microonde ha cambiato il modo in cui cuciniamo.

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    In realtà la rivoluzione in corso è più grande - sono molte le macchine a controllo numerico - e molto più profonda. Presto ce ne accorgeremo, ma già adesso la personal fabrication consente di produrre facilmente non le cose che trovi nei negozi ma proprio quelle che nei negozi non si trovano. E in molte città i FabLab stanno diventando una infrastruttura civica contro la disoccupazione».

    In effetti, leggendo i dati sui milioni di giovani che non lavorano e non studiano, qualcosa non torna: non sanno delle opportunità?
    «Bisogna essere chiari. Il lavoro sparito non tornerà dove era. Credere il contrario è una illusione di cui dobbiamo liberarci prima possibile. I mezzi di produzione per fare le cose ormai costano sempre meno e sono sempre più facili da usare. Questo vuol dire che chiunque può diventare produttore di beni oltre che consumatore.

    È una rivoluzione più grande di quella dei personal computer, ma simile. Anche allora la democratizzazione dei pc fece chiudere tante aziende, che vivevano nel passato, ma da lì sono nati colossi come Google e Facebook, così come migliaia di piccole startup e milioni di app sviluppate magari da singoli individui. Posti lavoro nuovi per lavori che prima nessuno immaginava che esistessero. Ecco: questo sta per accadere al mondo delle cose».

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    In Europa si parla molto di piani per il lavoro dei giovani: cosa dovrebbe fare un governo?
    «Primo, investire sulla conoscenza a livello locale, cioè sulla capacità di ciascuno di comprendere questo mondo e diventarne protagonista. E poi investire sulla infrastruttura. Ma non penso a investimenti pubblici giganteschi: non servono tanti soldi. Bastano alcune decine di migliaia di euro per un FabLab. L'esempio più eclatante è Barcellona che sta aprendo una rete civica di FabLab per combattere la disoccupazione e puntare sull'innovazione».

    La classe politica ha gli strumenti per capire in che direzione andare?
    «Negli Stati Uniti il presidente Obama ha appena stanziato 200 milioni di dollari per aprire tre nuovi istituti per la manifattura digitale e ha chiesto al Congresso di stanziare un miliardo per aprirne altri 15.

    E il deputato Bill Foster sta portando avanti una legge bipartisan per aprire un FabLab in ogni distretto del Congresso: parliamo di 435 nuovi FabLab definiti istituzioni di interesse nazionale in quanto tra l'altro ci aiutano a passare dal made in China al made in Usa. Con quali soldi? Con gli investimenti e le donazioni di privati. In questo modo quando apre, un FabLab, non è espressione del governo ma di una comunità locale».

    Lei pensa che presto le fabbriche spariranno?
    «Quelle con un altissimo livello di specializzazione e investimenti, no. Come è accaduto col web ci sarà un nuovo ecosistema: non a caso Microsoft convive con milioni di sviluppatori indipendenti».

    Oggi lei incontra i rappresentanti dei FabLab italiani in un evento che è una anteprima della Maker Faire europea in programma a Roma ad ottobre. Che ruolo vede per l'Italia?
    «L'Italia può dare a questo mondo un nuovo senso del design. Il prossimo Leonardo uscirà da un FabLab».

     

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